LA VIDEORECENSIONE di Francesco Crispino
IL TESTO
La nascita e la morte, l’amore e la malattia, le speranze e le disillusioni, la dimensione tragica e quella comica. E la Vita come un cristallo di tempo che contiene tutto ciò, e il cinema come formidabile strumento che la rende visibile, rivelandone la prismaticità e di conseguenza la straordinarietà. Sono questi i temi che informano il settimo lungometraggio dell’irlandese John Crowley — apprezzato artista intermediale che da anni si muove tra teatro, cinema e televisione, dividendosi tra Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti — che qui sembra operare una significativa svolta nella propria filmografia. Non tanto per ciò che sceglie di raccontare — ovvero la decennale vicenda amorosa tra Tobias, impiegato di una ditta di cereali appena uscito da un travagliato divorzio, e Almut, un’ambiziosa chef stellata che incrocia “letteralmente” la sua strada —, quanto per come decide di farlo. Perché nella scelta di Crowley di adottare una tipica cornice di genere come il melodramma per poi sabotarla dall’interno, decostruendone la confezione attraverso l’utilizzo di una narrazione non-lineare, che finisce per restituire la vicenda nella sua consistenza invece che nell’abituale conformazione determinata dalla concatenazione causale, c’è un sostanziale salto di qualità rispetto alle opere precedenti. Una vera e propria acrobazia discorsiva che investe il Tempo, ovvero quella macrocategoria dell’esistenza valutata quasi sempre nella sua progressione cronologica invece che nella sua complessità. Una riflessione che, proprio mentre spinge We live in Time in territori concettuali, non perde però mai di vista le radici del racconto, mettendone sempre in rilievo la dimensione corporale, particolarmente efficace grazie ai contributi dei due attori protagonisti, che trova il proprio acme performativo nell’esilarante scena del parto. Con menzione speciale a Florence Pugh, capace di costruire e deostruire uno dei personaggi più complessi della sua breve quanto apprezzata carriera.
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