Willem Dafoe è protagonista di due pellicole in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 82: è il vecchio poeta newyorchese di Late Fame, del regista e organizzatore di festival Kent Jones, e l’anziano direttore di albergo di The Souffleur, dell’argentino Gastón Solnicki, regista già presente in Orizzonti nel 2016 con Kékszakállú (Barbablù) e Fuori Concorso nel 2018 con Introduzione all’oscuro.
The Souffleur non è un film facile, richiede la giusta predisposizione alla visione. L’autore non esce dalla sua cifra registica simbolica e eccentrica. Il suo desiderio è di rappresentare situazioni culturalmente a scavallo tra la sua terra nativa e la vecchia Europa. L’attenzione di Solnicki cade, in particolare, sulla società viennese, usata come metro di paragone per misurare la decadenza della cultura occidentale.
Dafoe è Lucius, il direttore di un grande hotel di Vienna, costruito in forme internazionali e lussuose nel dopoguerra. Vediamo alcuni spezzoni in bianco e nero della sua storia. La struttura gloriosa è invecchiata e il protagonista, che lo dirige da trent’anni, ne vorrebbe impedire la demolizione ad opera del nuovo proprietario, un ricco uomo argentino. Il film apre con un soufflé che si gonfia male in cottura e finisce a torte in faccia, ma senza che questo abbia un risvolto comico.
Con l’aiuto della figlia e dei pochi dipendenti, Lucius si aggrappa alla vita che si è costruito, perché quella è l’unica casa che abbia mai conosciuto, nel tentativo di cristallizzare qualcosa che sta svanendo. Come in un cristallo abbiamo sfaccettature e riflessi, non c’è linearità, le scene si susseguono come monadi, alcune restano sospese, altre si ritrovano in fatti già accaduti, altre sono solo dei momenti passeggeri. Dice il regista del suo modo di lavorare: “L’invenzione narrativa, per me, nasce da un approccio contrappuntistico, in cui l’intuizione conta più della logica tradizionale.”
Fedele a questo presupposto il film appare spesso illogico, a tratti sgangherato, sorretto dalla interpretazione dell’abile protagonista, attore multiforme e interprete navigato, che trova la sua dimensione sia in pellicole autoriali e anti-classiche come questa, sia in colossal cinematografici.
La colonna sonora rende omaggio a una città che ha dato i natali a molta della musica moderna, colta e sofisticata. Solnicki aveva già intrecciato musica sinfonica e immagini in Kékszakállú (Barbablù), nel tentativo di unire la pienezza apicale delle opere musicali di Béla Bartók con il vuoto vertiginoso delle vite dei giovani borghesi argentini. Anche in questo film troviamo questa dualità fatta di grandezza musicale e vuoto esistenziale.
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