Il cinema è una forma d’arte che, spesso, intreccia il proprio ruolo con quello della politica e della propaganda. È uno strumento per la costruzione sia del consenso, sia del dissenso. Alcuni registi dedicano la propria vita alla resistenza contro i regimi politici cui sono sottoposti. Questo fatto doloroso e ingiusto è molto frequente dove manca la democrazia. Nell’Iran di oggi è la norma, quando un autore mostra la fragilità e la violenza della teocrazia e porta questo pensiero fuori dal controllo di Teheran, il regime inizia ad attenzionarlo e ad agire contro di lui per impedirgli di fare film, di narrare storie, di lasciare che il libero pensiero circoli.
Ali Asgari presenta in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 82 Komedie elahi (Divina Commedia), un quadretto grottesco sulla censura iraniana verso il cinema e i registi non allineati al regime. Asgari, cresciuto in una famiglia numerosa d’etnia tati, si è laureato all’Università islamica Azad di Teheran, frequentando poi il DAMS dell’Università degli Studi Roma Tre.
Nel 2014 concorre a Venezia con il corto La bambina, nel 2017 esordisce in Orizzonti con il lungometraggio Nāpadid šodan (scomparire), che tratta di tematiche sociali e sessuali nell’Iran moderno. Nel 2023, con Alireza Khatami, realizza Kafka a Teheran, nato dalla frustrazione dei due registi verso la censura. In questo difficile percorso il regista iranico getta le basi per realizzare Komedie elahi.
Bahram (Bahram Ark) è un regista quarantenne che ha realizzato film in turco-azero premiati all’estero, nessuno dei quali è mai stato proiettato in Iran. Il Ministero della Cultura ha nuovamente negato l’autorizzazione al suo nuovo film, questo lo spinge alla ribellione. Accompagnato in sella ad una Vespa rosa dalla produttrice e fidanzata Sadaf (Sadaf Asgari), donna libera e invisa al regime, intraprende una azione clandestina per presentare il suo ultimo film al pubblico iraniano. Bahram ha anche il problema di avere un gemello, Bahman Ark, che fa il suo stesso lavoro, sostenuto dal regime perché fedele alla censura religiosa. Inoltre, i ministeriali sono persone indottrinate e poco colte, credono che il Noah (2014) di Arnofsky sia tratto dal Corano, ignorando che quel racconto proviene da testi antichi comuni a più religioni, additando il newyorkese come esempio di un buon regista, anche se ebreo, perché tratta di temi dottrinali. Tra il comico e il tragico, il tentativo di rendere pubblico il proprio film resta schiacciato dalla realtà che prende il sopravvento sulla finzione.
Sono numerose le pellicole che raccontano cosa sia l’ingiustizia, l’oppressione, la violenza di stato. Quando una nazione pone al centro del proprio operare lo stato stesso, o peggio, delle convinzioni religiose poste come leggi e non pone al centro l’uomo e il cittadino, quella nazione è una dittatura. Quella dell’Iran è nota, le catene imposte ai registi e al cinema persiano sono cronaca di ogni festival. Pensiamo a Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, vessati dalle autorità e impossibilitati a ritirare i premi ricevuti e a girare nuovi film.
In Komedie elahi i registi Bahram e Bahman Ark hanno interpretano versioni romanzate di loro stessi. La loro presenza è una dichiarazione metatestuale sui temi del film. Allo stesso modo, Sadaf Asgari, nel ruolo della produttrice – a cui è stato vietato di lavorare in Iran dopo aver partecipato a Cannes con Āyehā-ye zamini – apporta autenticità al film interpretando sé stessa.
