La voce squillante, il tono amichevole, la cordialità tutta romana. La curiosità del giornalista. La competenza del critico cinematografico. Enzo Natta l’ho conosciuto così, quasi trent’anni fa. Io giovane redattore del settimanale il nostro tempo di Torino, lui collaboratore ‘storico’ del giornale e firma di lungo corso nelle pagine degli spettacoli. Cinema, soprattutto, ma anche televisione. Tante le telefonate in quegli anni, momenti preziosi in cui parlare di film, di registi, di festival andava oltre la proposta o la richiesta di un articolo e si accompagnava a note personali e ad accenti familiari: parlare con Enzo era come ‘abbeverarsi’ ad una fonte autorevole ma mai dottrinale, sempre, invece, generosamente colloquiale.
È stato lui, da direttore, a farmi collaborare con Filmcronache, a pubblicare con regolarità le mie interviste e i miei saggi. È stato lui, per me appassionato estimatore di Kieslowski e Sokurov, a farmi ‘tornare’ indietro, sulla stessa scia, ai maestri da me mai dimenticati ma da lui ‘vissuti’ in tempo reale: Bergman, Bresson, Dreyer, Tarkovskij, Buñuel. Proprio di Buñuel, rivedendone molti film durante questi lunghi mesi di pandemia e ricercandone materiali inediti o poco noti, ho scoperto per caso, on line, un’intervista filmata degli anni ’60 curata proprio da Enzo. Avrei fatto carte false per essere con lui, allora, in quella stagione forse irripetibile della cinematografia mondiale.
Le sue origini liguri, spesso rievocate con orgoglio nelle nostre conversazioni, per me italiano del Nord erano un altro, ulteriore segno di vicinanza, il legame comune con una terra (e con il mare) rinsaldato da frequenti viaggi in moto da Roma alla Riviera di Ponente. Oltretutto, non di rado, in sidecar. Le vicende storiche, e la Seconda guerra mondiale in particolare, erano l’altra grande passione di Enzo. Un interesse ben rintracciabile nei suoi recenti romanzi, in cui trame di fantasia rimandavano a pagine di storia e ad echi di cronaca.
Ci siamo incontrati di persona non molte volte, purtroppo, ma tutte sempre scandite da un reciproco, affettuoso calore umano: le riunioni assembleari Ancci durante la sua ventennale presidenza, un caffè in un bar della capitale per scambiarci gli auguri di Natale, un aperitivo alla Mostra di Venezia, pochi minuti prima dell’inizio di un film, in un locale dove Enzo, prendendomi sottobraccio, mi aveva trascinato invitandomi ogni tanto a “rifiatare” e a “prendermi qualche giusta pausa” dal vortice di proiezioni lagunari. Non era la stanca rinuncia alla ‘bulimia’ festivaliera. Era la ‘camera di decompressione’ per poter ripartire, con più slancio e freschezza, al nuovo film in programma.
Tre anni fa, l’ultima telefonata, alla Festa del cinema di Roma. Il tono sempre amichevole, ma la voce sofferta, intristita dagli anni, dai lutti familiari, dalla ritrosia, ormai, a uscire di casa. Ci eravamo detti di voler ancora vedere, insieme, un film in sala, come troppe poche volte era capitato. Non c’è stato il tempo.
Caro Enzo, mi hai insegnato tanto. E mi mancherai molto.