Cáit è una bambina di poche parole. All’inizio di The Quiet Girl pensiamo sia timida. Invece, nonostante la sua difficile infanzia in una famiglia che non sa come amarla, ha capito che le parole sono un dono da centellinare. Ci commuoveremo quando lei affiderà una parola molto importante a una persona a lei cara che ha un cuore buono straziato dal dolore.

​Otto donne si trovano in un fienile per parlare tra di loro e prendere una decisione molto importante. Le protagoniste di Women Talking – Il diritto di scegliere sono ispirate alla cronaca raccontata nel libro Donne che parlano.

Furono realmente violentate sistematicamente dagli uomini della comunità mennonita che vive nel rifiuto del progresso tecnologico, come se fosse fuori dal tempo, ferma nel 1800. Di notte le stordivano con un gas e si intrufolavano nelle loro stanze. Al mattino i lividi venivano giustificati come punizione divina, le gravidanze indesiderate come un dono del Signore. Scoperte le violenze devono capire il da farsi: restare e non fare niente, combattere per cambiare le cose o andarsene. La regista Sarah Polley ci mette di fronte alla loro discussione. Impossibile non pensare che queste donne, più che parlarsi a vicenda, stiano parlando a noi. Ci indigneremo quando appariranno ben evidenti le catene invisibili della religione distorta e quella degli abusi sia fisici che psicologici.

Di invisibili ci sono anche gli uomini, ma non le conseguenze delle loro azioni. Succede in Anche io, film sull’inchiesta che ha smantellato l’impero del potente produttore Harvey Weinstein rivelando gli stupri e gli abusi a danno di oltre 80 donne. L’azione è condotta dalle giornaliste Meghan Twohey (una straordinaria Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan). A differenza di molti film del genere (Tutti gli uomini del presidente) con la prevalenza di figure maschili, in questo splendido film sono le donne a svegliarsi di notte per fare chiamate importantissime. Gli uomini, pazienti, moderni, scritti benissimo, aiutano le mogli a cambiare il mondo dando una mano con le faccende di casa, con i figli, senza lamentarsi e stimandole tanto. Il peso dell’indagine si riflette sui loro corpi, sulla vita famigliare.

Eppure Megan, che ad inizio film sta vivendo una depressione post partum la supererà in un’inquadratura incredibile: Weinstein è di spalle, non lo vedremo mai in faccia, come non vedremo mai gli uomini di Women Talking, ed è la prima volta che il suo corpo appare sullo schermo. È sempre una voce minacciosa al telefono, o nelle registrazioni, un’assenza molto presente. Ci esalteremo con orgoglio quando la giornalista, inquadrata in primo piano, non abbassa lo sguardo ma tiene gli occhi fissi, con dignità, sul potente abusatore.

Commozione, indignazione, senso di rivalsa, sono emozioni che il cinema al femminile dà tutti i giorni, non solo l’otto marzo. Eppure guardando i dati di incasso appare come questo paesaggio dell’anima che ci porta a confrontarci con una realtà dura, ma ancora radicata in ogni società, non sia amato dal pubblico. Nessuno scandalo. Semmai diventa ancora più chiaro quanto sia importante il potere che ha l’esercente di credere in queste opere, difenderle e insistere nel proporle ai suoi spettatori, magari contestualizzandole in un evento con esperti. Perché i pochi biglietti staccati, paradossalmente, vanno a rafforzare ancora di più l’intuizione messa a tema da queste tre opere: la voce delle donne si propaga nella nostra società come un sussurro incessante che richiede attenzione per essere ascoltato. Pochi sono disposti a farlo, perché quando questo grido arriva alle orecchie fa paura, è scomodo, è sconvolgente. Si preferisce non sentire, ma queste sono le parole del presente: sono le più misurate, pensate e pesanti. Senza di loro, senza averle assimilate, il domani degli uomini è ancora lontano.

Scrivi un commento...

Sull'autore

Gabriele Lingiardi