Francesco Crispino recensisce Babygirl di Halina Reijn da Venezia 81.
Che cosa accade quando un desiderio troppo a lungo represso inizia a prendere il sopravvento nel tessuto psichico di un individuo fino ad arrivarne a mettere a repentaglio la maschera sociale, fino addirittura a minarne l’invidiabile situazione familiare e lavorativa faticosamente costruita? È questa la scaturigine del terzo lungometraggio dell’olandese Halina Reijn, qui nelle vesti anche di Producer e autrice dello script, interamente costruito sulla dinamica relazionale che si istituisce tra Romy, amministratrice delegata di una potente società di automazione che fa un uso diffuso di Intelligenze Artificiali, e Samuel, stagista dell’azienda e assai più giovane di lei.
Una dinamica animata da reciproche pulsioni sadomasochistiche, definita attraverso il ribaltamento dei rispettivi ruoli sociali e costruita dalla regista olandese come una sorta di catabasi contemporanea, con un’algida e notturna New York a fare da sfondo mai neutro. Le istanze sulle quali si poggia la narrazione tuttavia svaniscono subito, risucchiate nel vortice di un plot poco originale (dove echeggiano un certo Oshima, l’Haneke de La pianiste e l’Almodovar di Hatame! solo per citare i riferimenti cinematografici più alti), e incapace di smarcarsi dalla prevedibilità annunciata fin dalle prime sequenze, nonché da una messinscena che sembra preoccupata solo di dare una composizione glamour alle sequenze hard che la informano. Il risultato finale è dunque modesto, ed è un vero peccato. Perché Babygirl avrebbe un grande potenziale come body-horror, se solo lo sguardo di Reijn sul corpo ormai immobilizzato dal botox e anestetizzato dalla crioterapia di Nicole Kidman fosse meno superficiale.