Le fatiche del crescere, del fare i conti con sentimenti contrastanti, dell’attraversare nuove esperienze e guardare in faccia il dolore della separazione sono al centro di due piccoli, ma importanti titoli, validi più per aprire domande sull’incerta e periferica condizione giovanile che per suggerire risposte granitiche e accomodanti: Chien de la casse, opera prima del regista francese Jean-Baptiste Durand e Quell’estate con Irène, secondo lungometraggio di Carlo Sironi, autore già apprezzato per il suo esordio Sole.
Film pressoché invisibili che meritano di incontrare un pubblico attento e sensibile, capace di accogliere personaggi non convenzionali, protagonisti di drammi esistenziali che ne definiscono complessità, ombre, vuoti, mancanze, al centro di racconti in cui è amplificata la sconnessa narrazione di un mondo sempre più esposto ad ambiguità e opportunismo. Film simili, caratterizzati da uno sguardo profondo e onesto sulle relazioni, intenzionati ad accompagnare lo spettatore all’incontro di cuori pulsanti, in lotta per sopravvivere, impauriti dalla solitudine, affamati di vita e di amore. Sono film che racchiudono una profondità insolita, anime in cerca di un centro, ma sempre in bilico sui sottili confini dell’esistenza, portatori di una scintilla di spirito che pone di fronte opposizioni e contrasti, simmetrie e sproporzioni, irregolarità, stonature, ma proprio per questo capaci di assumere una postura vitale, credibile, a suo modo originale.
Il film di Jean-Baptiste Durand propone una personalissima rivisitazione del classico coming of age virando l’attenzione dal disorientamento individuale dei suoi tre protagonisti, Anthony Bajon (Damien), Raphaël Quenard (Antoine) e Galatéa Bellugi (Elsa), bellezze aspre dai lineamenti selvatici, alla ricerca di relazioni che salvano per la loro sorprendente dirompenza. Uscire dalla propria egosfera per aprirsi a un nuovo modo di stare al mondo, condividere spazi, tempi, pensieri, parole, sentimenti con altri: non è un tipico triangolo amoroso quello rappresentato, ma a Durand interessa sollevare forze ambigue, dinamiche di possesso, condizionamenti morbosi.
È un film sulla libertà, quindi, nel senso più ampio e degno della scena umana, fatto di legami e separazioni, che parte dalla periferia del mondo per contemplare la possibilità di raggiungere, un giorno chissà quando e come, ciascuno la propria centralità, con il coraggio di descrivere cosa significa cambiare, alzare o abbassare lo sguardo, denunciare le proprie fragilità o arroccarsi nelle certezze, essere vulnerabili, esposti, spezzati. La vicenda è trainata da Mirales e Dog, amici (?), fratelli (?), compagni di solitudine più che di avventura, inseparabili, fin dall’infanzia complici. Siamo in un piccolo villaggio del Sud della Francia, a Le Pouget, accanto a Montpeyroux dove è cresciuto il regista, paesino da duemila anime, lontano dal traffico, immerso nella natura, distante da quelle complessità da cui fugge Elsa che, infatti, si rifugia nella casa della zia per le vacanze dall’università. Luogo liminale sospeso e lontano, in cui il tempo assume un significato altro perché fatica a tenere conto di altro. Mirales e Dog, nomen omen, girano a vuoto, occupano il vuoto del proprio borgo in attesa di un qualcosa che dovrebbe accadere, avvenire, realizzarsi, ma non c’è. Una fratellanza che porta alla fusione e a far scomparire l’uno nell’altro.
Durand sceglie di fare i conti con la complessità delle domande, della ricerca del sé, della scrittura di uno sguardo che interpella perché è segno di pretesa, attesa, resa, controllo, potere come brama di dominio, desiderio di riconoscimento, sfida all’altro. Il titolo ricalca un’espressione tipica dei quartieri di periferia, termine di paragone della vicenda, e significa il “cane dello sfascio” cioè colui che fa le cose per sé, malgrado i suoi amici; ogni “cane dello sfascio” crede che gli altri siano “cani dello sfascio”. Una dinamica rappresentativa dell’amicizia che unisce questi ragazzi e che riflette la relazione padrone-cane, ma anche uno spartito definito da un rapporto dominante/dominato, ma anche un legame tenuto insieme da un amore indefettibile, un coraggio e una fedeltà al limite dell’assurdo.
Infatti, se il film riesce ad addentrarsi nelle dinamiche relazionali con consapevolezza e pudore, tracciando profili mai convenzionali dettati da sguardi sempre in attesa di risposte e protezione, è proprio perché Durand ha ben chiaro che amarsi significa volere il bene dell’altro riconoscendogli una libertà, occuparsene accantonando le proprie pretese. Soprattutto pare abbia le idee chiare sul fatto che la vera tragedia per l’uomo non sia il conflitto e l’alterità bensì i due estremi che negano questo rapporto: confusione e separazione. C’è un finale stupendo, angosciante e terribile.
Seguendo il tracciato malinconico e amaro del tempo che scorre, un tempo che è quello delle occasioni della vita illuminate dalle relazioni che salvano, Carlo Sironi dipinge due profili di giovani donne convocate dalla libertà e dalla vita. Film materico, realizzato sulla terra, dentro l’acqua, in cerca di aria e luce, riesce ad essere gentile e potente. Crescere significa sempre fare i conti con un perdere e lasciare andare, e così il film si addentra nelle sotterranee di una terra curiosa (siamo a Favignana) che è appunto l’adolescenza nella sua fase terminale, esposta dal desiderio inesprimibile di gustare la vita pur riconoscendone una poderosa irruenza.
Una visione dell’essere giovani tradotta da una messa in scena pulita e trasparente, in cui si preferisce affrontare i nodi adolescenziali senza cellulari e selfie ma con una videocamera a fissare i ricordi in una prima evoluzione dei “filmini” familiari… L’estate con Irène racconta di un tempo fissato nella memoria di Clara, quello che trascorre sull’isola siciliana, in fuga dalla colonia per adolescenti in chemioterapia in cui le famiglie le hanno collocate. Una liberazione, una fuga che permette un incontro tra opposti: scura, decisa e limpida una, pallida, chiusa, timida l’altra. È Irène che prende per mano Clara e la porta con sé in vacanza; è Clara che si affida a Irène come una guida. E gli adulti dove sono? Non ci sono, né da una parte né dall’altra.
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