Ce lo siamo già detti: vedere tanti film procura davvero delle attraversate oceaniche su alcune “materie” da maneggiare con cura. Una tra queste è la maternità e il desiderio che l’accompagna. Che la qualità di quest’ultimo non sia un accessorio trascurabile lo sanno bene sceneggiatori e registi che da questa “fame”, talvolta incerta nelle sue intenzioni, traggono storie aggrovigliate che richiedono la pazienza dello scavo, la sensibilità di capire un po’ di più di ciò che sta in superficie. Rosalie, Rapita e Sindrome degli amori passati a loro modo ci provano e senza assomigliarsi neanche un po’.

Nell’opera franco-belga Rosalie diretta da Stéphanie Di Giusto l’omonima protagonista (Nadia Tereszkiewicz) coltiva l’impellente bisogno di accoppiarsi e fare famiglia, larga per di più, nascondendo dietro a questa dichiarata fretta riproduttiva la voglia di essere amata così com’è. Rosalie porta infatti in dote soldi, talenti ma anche una folta barba che la squalifica rispetto i parametri passati, e sicuramente anche odierni, di femminilità. Con indefessa costanza Rosalie prega, si rivolge direttamente a Cristo e alla Madonna, perché le sia concessa la grazia di essere amata, cosicché da quell’amore possa venire al mondo una creatura che fin da subito la accetti nella sua forma. E in fondo alla fine ha la sua ragione: chi più di un figlio può assicurare ad una donna l’esperienza di un amore incondizionato?

Rosalie è accompagnata con un carretto verso questa nuova vita solo dal padre che con gran cortesia, ovvero rincuorato, lascia colei che è percepita come “meno donna” allo squattrinato Abel (Benoît Magimel) che presto, entrando in intimità con la sua dama, dovrà prendere posizione sulla “differenza” di Rosalie. «Ad ispirarmi – ha raccontato la regista – è stata una donna straordinaria, Clémentine Delait. Una donna con la barba che è diventata famosa all’inizio del XX secolo. Il suo volto femminile coperto di peli mi affascinava dalle sue foto, conteneva un mistero, che era tutto da esplorare».

E se la differenza si nutre in primis del senso della vista, Rosalie non potrà che acconsentire alla spartizione di questo cibo, mostrandosi nella verità del corpo, con la speranza che le persone sappiano mettere in campo anche altri sensi. Sebbene si scopra che la donna-fiera – tanti accorrono a vederla – non potrà avere figli, il suo desiderio impossibile irradierà comunque il percorso di accettazione di sé che coinvolge sia Abel sia la comunità.

Rosalie
La sindrome degli amori passati

Di tutt’altro tipo, o meglio volutamente imprecisato, è il desiderio di maternità più contemporaneo raccontato in La sindrome degli amori passati, opera seconda degli autori del sorprendente La folle vita, presentata alla Settimana della Critica di Cannes 76 e in sala nei prossimi mesi con Wanted Cinema, distributore indipendente anche di Rosalie.

Ann Sirot e Raphaël Balboni tornano sul desiderio-ossessione di avere un figlio, messo in pausa nell’opera prima dalla demenza di Suzanne, la madre di lui che polarizza le energie della coppia mettendo a soqquadro il loro equilibrio e nella seconda, invece, congelato dalla diagnosi di infertilità di coppia che, buona notizia, grazie ad una nuova ricerca sembra avere le ore contate. A patto, però, di entrare nel protocollo proposto dal medico che, ricordandosi della prospettiva etica (l’unico momento in cui la commedia cede il passo alla morale), sottolinea che non c’è nulla di sicuro: percentuali di riuscita a parte, bisogna mettersi di buona volontà e andare a letto, colpo di scena, con tutti i partner che hanno preceduto l’attuale, ripercorrendo così la propria “storia sessuale”.

La sorte in retromarcia, senza dubbio brillante e sagace nella sua rappresentazione, coinvolge i protagonisti Rémy e Sandra mettendo nero su bianco il peso del loro desiderio. Non più continuare a fare l’amore con rigorosa costanza di giorni e orari per cercare la volta buona, ma sbloccare qualcosa che non si vede tornando alle vicende del passato: la differenza, stavolta interiore, crea il prevedibile bivio nella coppia rispetto al modo di affrontare la surreale prova. Come si addice ad una commedia la dinamica prende il sopravvento sull’obiettivo (riproduttivo), chiarificando quanto poco fosse stato messo a fuoco.

Viene alla mente quante prove, contro ogni morale del tempo, ci abbia esposto anche l’Antico Testamento e con la stessa pazienza, quasi esegetica, cerchiamo un senso anche a questa respingente strategia, peraltro sottratta alla vista, rimanendo ancorati alle regole della commedia che va esperita nella sua ilarità e spiegata pochissimo.

Vale la pena ricordare, invece, che le prime sequenze di Le Syndrome des Amours Passées sono dedicate proprio ad una madre alla quale bisogna inviare una foto, un augurio sapendo che quest’ultima, in realtà, attende soltanto di sentirsi annunciare la lieta novella. “Le mani della madre,” per dirla con il titolo di un famoso saggio, arrivano soprattutto dove non si vedono.

Come accade in Rosalie, anche qui, dal desiderio di maternità si evolverà piuttosto in una relazione reale, sofferta e autentica con chi collabora al nostro desiderio. Per arrivare, infine, ad un abbraccio che contiene tutte le imperfezioni intese come forme altre, fisiche e psicologiche, anche le più drammatiche come quelle messe in scena dall’ostetrica Lydia (Hafsia Herzi) nell’opera prima francese Rapita Le ravissement di  Iris Kaltenbäck, sempre Settimana della Critica di Cannes 2023, premiata al Torino Film Festival per la miglior attrice e distribuito da Satine Film. È Milos, un conducente serbo di bus notturni a Parigi, a raccontare la storia di questa giovane donna che con estrema professionalità accompagna le donne a mettere al mondo le creature che hanno dentro di sé.

Lei si occupa delle madri – ribadisce Lydia più volte – e non dei bambini, consegnando con lo sguardo un sentimento depressivo tutto da abitare. Sarà perché la madre è morta mettendola al mondo (non sappiamo se è vero o se è un frutto orale del disagio mentale che la attraversa), sarà perché occupandosi di loro ha trovato un modo per sopravvivere alla sua solitudine, sarà perché dagli uomini non riceve l’amore che cerca e che sperava almeno in Milos, altro custode di una solitudine che si infiamma nell’insonnia.

Le ravissement Rapita

Lydia è un personaggio che sembra uscito dalla penna sensibile e compassionevole di Eugenio Borgna (psichiatra e saggista, classe 1930) che spesso nei suoi libri ha narrato proprio la sofferenza femminile senza costringerla solo nella follia o nella patologia. È quello che desidera fare anche Milos, voce narrante di un atteggiamento quasi mistico: arrivare all’anima di Lydia dopo il processo, dopo il carcere, dopo la fine di una fiaba.

Malgrado ciò di cui Lydia sarà capace – lei che i bambini li porta alla luce, lei che saprà sottrarre quello della sua più cara amica –, Milos ritrova la sua capacità di amare abitando il teatro misterioso in cui Lydia lo attira, mantenendosi comunque accanto a lei con rara misericordia. Lydia e Milos si camminano accanto senza destinazione: sapranno trovare la voglia di vivere, il materno che riguarda tutti, o finiranno abbracciati negli abissi come Rosalie e il suo cavaliere?

E se la maternità fosse la madre di tutti i desideri… questi tre film, diversamente scorretti, hanno davvero molto da dire e poco da spiegare.

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.