Con che occhio mi guardi? Chiede Angus Tully (Dominic Sessa) al professor Paul Hunman (Paul Giamatti). Siamo nel pre-finale di un film in cui non si capisce mai del tutto (d’altra parte il titolo possiede più di un significato) né chi rimanga al suo posto né chi venga rimandato, eppure, la risposta alla domanda è di una linearità così netta da sembrare ovvia. Ma in The Holdovers – Lezioni di vita, ottavo lungometraggio dello statunitense Alexandre Payne, dell’ovvio non c’è traccia e nulla può essere guardato con superficialità. A cominciare dalla scelta di offrire allo spettatore la possibilità di immergersi negli anni Settanta attraverso il filtro di un mondo cinematografico fatto di immagini sgranate e canzoni d’epoca fino a sperimentare di tasca propria gli effetti benefici, ma sofferti, di un viaggio andata e ritorno, vissuto a ridosso del Natale del 1970, animato da una riflessione molto personale sul tempo passato e la qualità delle nostre relazioni.

Così, la prevedibile relazione tra lo scontroso professore di liceo privato e il giovane alunno combinaguai costretti alla condivisione e convivenza forzata nel New England innevato e desolante del 1970, per Payne altro non è che il pretesto per tornare a guardare con sguardo meno cinico e più compassionevole rispetto al proprio repertorio filmografico, gli elementi che rendono tale una vera (sacra) famiglia. Perché il cuore di questo film doloroso ma colmo di speranza è racchiuso nei piccoli gesti che i protagonisti compiono nel prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altro come sembra suggerire il pezzo di Cat Stevens che si ascolta verso la metà (I listen to the wind, to the wind of my soul Ascolto il vento, il vento della mia anima/ Where I’ll end up, well, I think only God really knows Dove andrò a finire, beh, penso che solo Dio lo sappia davvero/ I‘ve sat upon the setting sun Mi sono seduto sul sole al tramonto).

Se da una parte è esplicito l’invito a guardare l’insegnante, il maestro, come a colui che accompagna l’allievo alunno verso quel nutrimento che è proprio del suo essere guida e riferimento, dall’altra emerge in maniera lampante la condizione contraria e opposta in cui l’adulto comprende che può essere abbracciato dalla salvezza solo se si affida alla vivace imprevedibilità del giovane. A fianco di questa tipica situazione duale del cinema di Payne troviamo la presenza di un terzo soggetto segnato dalla figura dolorosa di Mary Lamb, cuoca della scuola che ha perso il suo unico figlio in Vietnam, capace di trasmettere tutta la sua umana dignità con il semplice gesto di una mano che estende per accarezzare in un momento di solitudine. È un film così The holdovers, a suo modo cocciuto e simpatico, ordinato e inadeguato, che al freddo esterno contrappone il caldo interno, fatto di inseguimenti e cose fuori posto: persone che non sono dove vorrebbero essere, corpi che seguono traiettorie anomale. È anche un film che pone al centro la figura di emarginati e dimenticati, di vittime, di ultimi che solo grazie al conforto trovato nelle relazioni riescono a non perdersi d’animo, a non mollare, a trovare ancora la voglia di farsi rincorrere, seguire, guardare anche se questo costa qualche urlo di dolore.

E, soprattutto, The holdovers grazie a quell’importante finale, è un film sul sacrificio che non teme di guardare in faccia la responsabilità del maestro-educatore chiamato alla generatività: genitore simbolico che aspira a dare la vita per amore gratuito (in chiave agapica e non empatica), tenendo il ruolo nella sua forma di amicalità, Hunman-Giamatti è un personaggio che sa porre la distanza accanto alla prossimità, puntando a diventare inutile, come il Battista quando dice: “Egli deve crescere, e io invece diminuire” (Gv 3,30). Averne di film così, proiettati sulla rappresentazione della salvezza e capaci di raccontare la possibilità di credere in qualcuno che ancora riesce a rendere sacra la vita dell’altro.

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Sull'autore

Matteo Mazza