Mahito Maki, il protagonista de Il ragazzo e l’airone, legge un libro prima di partire per l’avventura. E voi come vivrete? di Genzaburō Yoshino è il volume che sua madre defunta gli ha lasciato in dono. È anche il libro che il regista e animatore Hayao Miyazaki ha letto prima di mettersi all’opera sul film. L’opera dovrebbe essere un adattamento del romanzo, ne condivide anche il titolo originale, eppure ha poco da spartire a livello di trama. Il libro entra nel film, che si muove invece su binari liberi e originali, nelle riflessioni tematiche e nel modo in cui interpreta le vicende fantastiche che, di lì a poco, capiteranno al ragazzo. Che paesaggio dell’anima straordinario: i libri che leggiamo e che amiamo, ci dice Miyazaki, spiegano chi siamo. Per capire appieno Mahito e tutte le sue scelte successive dobbiamo scoprire che cosa ha trovato in quel romanzo. Il film non ce lo dirà mai. Sta a noi leggerlo e capire quali parole gli abbiano cambiato la vita.

Il ragazzo e l’airone è veramente difficile da comprendere nel suo svolgimento lineare. È una fiaba classica, molto vicina a La città incantata nel modo in cui gioca sulle soglie, ma è anche incredibilmente complicato. I non detti sono maggiori delle spiegazioni. Poco importa, quello che conta è cogliere la dimensione emotiva in gioco e quella è sempre chiarissima. Ci sono regni in guerra, un creatore onnipotente vecchio e stanco, forse impazzito, oppure così saggio da non essere capito. Le creature appartengono sia alle leggende orientali che all’immaginario dantesco.

Nulla è spiegato. C’è una tomba che si vede anche nella locandina italiana, delimitata da un cancello. Dentro vive uno spirito da non disturbare. Il protagonista ci finisce mosso dalla curiosità, viene salvato prima di fare un danno irreparabile. Non sapremo mai se lì dentro ci sia qualcosa di maligno o semplicemente un’entità sacra da non profanare. Si passa oltre. I luoghi di Miyazaki sono così un qualcosa di incontenibile dal cinema limitato in una sceneggiatura, sono spazi di un mondo infinito che esiste nella testa del suo creatore. Ogni angolo conserva una storia che mai ci sarà dato di ascoltare. Possiamo solo dedurla.

C’è uno spazio però che sovrasta tutti gli altri per bellezza, mistero e significato. È la torre situata vicino alla nuova abitazione di Mahito, in fuga da Tokyo, l’epicentro della guerra. In passato l’edificio, ora apparentemente distrutto, venne edificato intorno a un meteorite con poteri magici e spirituali. Qui il regista sembra prendere spunto dalla Kaʿba nella Sacra Moschea dell’Islam, sempre nella prospettiva di un cinema culturalmente universale. Mahito è attratto dai suoi punti di ingresso rimasti, viene continuamente però richiamato indietro dalla sua prudenza e dalle vecchine che abitano in quel luogo. Di solito gli avventurieri del cinema non vedono l’ora di cacciarsi nei guai, lui resiste, come se sapesse la responsabilità che gli tocca.

Quando si trova nella stanza principale della torre è in uno spazio lovecraftiano (un luogo connotato da un’identità architettonica eppure così astratto come la stanza “aliena” di 2001: Odissea nello spazio). Lì la sorte dell’universo è descritta attraverso una sorta di “Jenga” più elaborato. Una piccola torre con forme di vario tipo che traballa un poco ogni giorno, quando il suo creatore le schiocca contro le dita. Quanto ancora riuscirà a reggere? L’invito al giovane protagonista è di prendere il posto del vecchio creatore e costruire la propria versione perfetta. Oppure di fuggire e tornare nella vecchia realtà che presto brucerà. Il ragazzo e l’airone attraverso i suoi edifici e questa straordinaria scena (che non sveliamo nella sua conclusione) invita ad accettare le crepe della nostra casa, la fragilità della terra degli uomini. La presenza del male non deve impedire di vedere la bellezza e di cercare dentro di noi lo spirito dei re che si prendono cura del popolo.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi