La pagina bianca è uno stato mentale che non abbandona mai lo scrittore, una condizione spirituale con cui ritorna a fare i conti puntualmente ogni volta che punta a tornare in libreria. E’ la postura della protagonista del film Tra due mondi dell’intellettuale-scrittore, nonché regista, Emanuel Carrère, pronta a dismettere ogni convenzione della sua vita per farsi lei prima di tutto nuova sua opera. Per questo si presenta ad un ufficio di collocamento senza rivelare la sua vera identità e viene assunta come donna delle pulizie sul traghetto che ogni giorno attraversa la Manica fin dall’alba. Il tema della sua nuova pubblicazione è, infatti, il lavoro precario ma prima di scriverla, letteralmente, Marianne tenta di sentire questa esperienza sulla sua pelle senza negarsi le umiliazioni e i ritmi massacranti che le colleghe vivono già da tantissimo tempo.
Toccare con mano le cabine e i servizi igienici che devono essere messi a nuovo nelle ultime ore della notte e in un tempo davvero ristretto spalanca alla scrittrice “in borghese” un romanzo che non avrebbe mai potuto lontanamente partorire solo con la sua immaginazione. La forza imprescindibile di ogni forma di narrazione non risiede, infatti, soltanto in una inedita capacità stilistica di scrittura, per quanto fondamentale, quanto piuttosto a pari merito anche nella sua forza di rappresentazione – vera messa in scena – di un ambiente con i suoi personaggi e le sue dinamiche. E sebbene, in tal senso, nel traghetto ogni giorno Marianne trovi davvero tutto quello che le serve per scrivere e abbandonare il fantasma della pagina bianca, con il passare delle settimane la scrittrice vi trova anche tutte le insidie e i sacrifici di una vita faticosa e traballante. Prima tra tutte vi è la sfida di avere dopo il turno di lavoro ancora delle energie fisiche per scrivere: quante volte Marianne, infatti, si ritrova addormentata accanto al computer appesantita dagli orari e dall’intensità delle pulizie.
Fino a qui la sceneggiatura scritta da Carrère in coppia con l’ex moglie Hélène Devynck, ispirata al romanzo inchiesta Le Quai de Ouistreham del 2011 di Florence Aubenas (edito in Italia da Piemme con il titolo La scatola rossa), potrebbe sembrare più un’esperienza di denuncia delle condizioni del mondo del lavoro assimilabile alla filmografia di Ken Loach o al magistrale In un altro mondo di Stephan Brizé. In realtà accanto alla rappresentazione di un mercato del lavoro, in particolare al femminile, tristemente privo di garanzie e di tutele, Carrère marchia in modo indelebile la drammaturgia di Tra due mondi con la sua personale esperienza di scrittore capace di intrecciare sempre i fili della finzione con la verità della sua vita. Ed è così che di Marianne conosceremo anche il suo progressivo affezionarsi ad un umanesimo sottomarino che dalla necessaria ispirazione la trascinerà nell’esperienza della frode e del tradimento, dal successo del suo nuovo libro-verità ad una, nondimeno, sofferenza davvero destabilizzante.
Juliette Binoche – Marianne, dimessa quanto straordinaria, recita accanto a donne, attrici non professioniste, che in molti casi mettono in scena proprio se stesse, reali donne delle pulizie in traghetto non abituate a dedicarsi scioperi e a rivendicazioni, ma a mettere tutte se stesse per non perdere almeno quella opportunità arrivata al volo e pronta anche ad andarsene in un soffio. Si tratta di donne che si affezionano a Marianne, assolutamente incapace inizialmente di fare le pulizie, e che la aiutano ad inserirsi, a resistere e a non perdere il lavoro, anche prestandole un’auto, e che quando scopriranno che di quel impiego lei non era così bisognosa si sentiranno tradite e offese. In questo doppio senso di disvelamento delle condizioni di lavoro del precariato ma anche di tradimento di amicizie sorte in questo ambiente così sbrigativo e spigoloso, Tra due mondi arriva potente e autentico nel farci conoscere la provincia francese e le sfide etiche che uno scrittore deve affrontare per raccontare più possibile ma senza mancare di rispetto.
Le soluzioni a questo conflitto deontologico non sono né retoriche né a buon mercato: Marianne riuscirà, in definitiva, a scrivere un romanzo che apre una breccia su mondi separati, distanti proprio perché prima di entrarvi si spoglia dei vantaggi e delle comodità del suo modo di vivere. Aderendo a questa sobrietà di mezzi e situazioni, assai condizionante, Marianne si affranca da un’ortografia normante che la limita in termini di scrittura, ma al contempo più si libera di essa più la mole delle bugie aumenta. E ancora: più la distanza tra lei e le altre donne diminuisce, più viene esacerbata la distanza tra questi due mondi che esploderà in tutta la sua drammaticità al momento della scoperta della sua reale professione. Qualcuna di queste donne vorrà leggere il romanzo, qualcun’altra non mancherà alla presentazione in libreria, qualcun’altra tra le più intime con Marianne vorrà soltanto odiarla per sempre. Difficile non scorgere negli occhi di Marianne quella sofferenza anche di Carrère, esperto conoscitore del senso di tradimento delle tante persone realmente esistenti finite nei suoi romanzi. Le lacrime di Marianne e la rabbia delle amiche-colleghe sono i due volti della stessa medaglia che porta il titolo “fino a dove spingersi?”, un discernimento editoriale necessario e mai concluso, in primis per Carrère ossessionato dalla ricostruzione di quello che lui stesso chiama “contesto” ma che nella percezione dell’altro tirato nella scena diventa più un paesaggio dell’anima da custodire che la ricostruzione di un ambiente.