Nel 1995 Mathieu Kassovitz raccontava le banlieue di Parigi attraverso le vite di tre amici. “L’odio”, che presta il titolo al film, attraversava l’intero quartiere. Era una catena impossibile da spezzare. Osservati dai media borghesi come animali in gabbia, i tre protagonisti rappresentavano tre tipi di cittadino di seconda generazione: un ebreo, un nero e un magrebino vittime di una marginalizzazione asfissiante di un ghetto-prigione a cielo aperto. Parigi fu una storia d’odio, ma oggi può essere anche una storia d’amore, e lo dimostra “Parigi, 13Arr.” (“Les Olympiades”) di Jacques Audiard. Un contro canto questa volta speranzoso, solare e vitale.

Non chiamatelo erotico. Questo non è un film che mostra il sesso per puro voyeurismo. Qui l’incontro tra i corpi è un’azione dialogante, che cambia il percorso dei personaggi, che porta avanti i rapporti. Sulla base di come fanno l’amore capiamo cosa passa nella loro testa, se sono veramente liberi, presenti, o se invece l’oppressione sociale affligge anche i giovani di Audiard come quelli delle banlieue.

La sceneggiatura di Celine Sciamma, tratta da alcune graphic novel di Adrian Tomine, fa iniziare “Parigi, 13Arr” con una ripresa da un drone che attraversa il quartiere. Un movimento che ricorda il volo della cinepresa che ne “L’odio” seguiva il propagarsi delle onde sonore della musica sparata dalle finestre. Anche il bianco e nero è lo stesso, rotto solo dal colore degli schermi dei dispositivi digitali. La giovinezza è così, semplice, irreale, chiara e scura.

Anche qui ci sono tre vite, quelle di Émilie, Camille e Nora. La marginalità non gli appartiene, loro sono al centro di un mondo che pompa rapido una colonna sonora che batte al ritmo del loro cuore pieno di adrenalina. Sono affamati di mondo e di esperienze. Non sarà un affitto da pagare a fermarli, nemmeno una reputazione distrutta per un fraintendimento, o le frustrazioni professionali che costringono un professore a sperimentarsi in un lavoro non suo, in cui è sotto qualificato, ma meglio retribuito. Loro continuano a esistere, a far proprio il pezzo di terra che gli è stato consegnato. Devono saperlo usare, non devono guadagnarselo.

Nel contrasto tra il prendere e il gestire esplode così forte l’opposizione tematica tra Audiard e Kassovitz, che diventa un parallelismo. Non c’è infatti relazione diretta tra i due, uno non è un sequel dell’altro. Eppure “Parigi, 13Arr” involontariamente ribalta come un calzino il mondo de “L’odio”, rivelando però che il tessuto di cui sono fatti è lo stesso. È il confronto tra i finali a spiegarlo.

Nel 1995 la pistola di un poliziotto sparava per sbaglio alla testa di uno dei tre amici. Una seconda arma, che per tutta la pellicola è passata di mano in mano come un giocattolo, veniva estratta e puntata contro l’assassino. Un primo piano sugli occhi atterriti del terzo osservatore, un colpo fuori scena. Il nero dei titoli di coda concludeva la vicenda senza avere un vero finale, senza darci risposte sul loro destino. L’amore invece è un’altra forza. È quella che al momento del funerale della nonna di Émilie, colei che dandole l’appartamento ha permesso tutte le relazioni che vi sono nate all’interno, fa suonare un citofono. Dall’altro capo della cornetta c’è Camille, il ragazzo che lei ha sempre amato. Noi ascoltiamo la loro conversazione come degli ospiti di troppo. Poi la giovane esce dalla porta e dall’inquadratura, va verso il suo futuro e – forse – la sua vita adulta. Restiamo allo stesso modo in sospeso, senza sapere che cosa stia succedendo tra i due mentre il nostro sguardo è, anche in questo caso, sospeso nei titoli di coda.

Nel film sul malessere della società è delegata la chiusura al suono di un’arma. In quello sulla bellezza dell’amore il simbolo è una porta aperta. Una casa che non è più un piccolo mondo privato, ma che è una base di partenza che permette di aprirsi con tutte le energie di chi ha muscoli per correre lontano. Dopo un lungo lockdown quel citofono abbandonato al suo destino, mentre i proprietari si abbracciano non visti, fuori dall’inquadratura, rappresenta una delle idee più importanti e commoventi che si sia vista sul grande schermo quest’anno.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi