Lunana è un villaggio lontano, a tal punto da sembrare irraggiungibile. È una destinazione, una missione, un dovere da compiere, un luogo dell’anima.

A Lunana c’è un insediamento di persone che si raggiunge con le proprie gambe dopo giorni di cammino e migliaia di metri di dislivello vissuti a stretto contatto con i segreti dei ghiacciai dell’Himalaya e la durezza della roccia, la forza del vento, l’ambiguità delle nuvole. Lunana è in alto, a 4800 metri, e, come tutto ciò che è altum, è riflesso di una profondità e apertura perché mondo nascosto ma vivo, abitato da una cinquantina di persone, illuminato soltanto dalla piccola scuola in cui Ugyen è chiamato ad insegnare come maestro. Lui vorrebbe fare il cantante in Australia e invece i suoi superiori lo spediscono per punizione nel villaggio alla fine del mondo, una vera e propria “valle oscura” che mortifica ogni sogno e frantuma qualsiasi entusiasmo. Eppure un tempo insegnare lo rendeva felice, proprio a casa sua, in Buthan, nel paese più felice del mondo.

Ma, appunto, che cos’è la felicità? Questo sembra domandarsi Lunana. Il villaggio alla fine del mondo, opera prima di Pawo Choyning Dorji, qui anche in veste di sceneggiatore, regista del Regno del Bhutan già assistente di Khyentse Norbu (artista e filmmaker in ambito buddhista molto rispettato per i suoi insegnamenti e scritti), un film che si rivela allo spettatore, passo dopo passo, yak dopo yak, con grazia e leggerezza mettendo in scena il percorso interiore e il cambiamento vissuto da Ugyen al pari della ricchezza di relazioni coltivate con sorprendente cura. Esiliato dalle sue comodità occidentalizzate, il ragazzo affronterà lo scoraggiante compito di insegnare ai bambini del villaggio senza alcuno strumento didattico a disposizione e, quella che inizialmente per lui sembra essere una sfida insuperabile, progressivamente si trasformerà in una straordinaria opportunità di crescita, di apertura dello sguardo, di incontro con la bellezza, di conoscenza del mondo, di fiducia nel prossimo, tanto da sentirsi trasformato grazie alla straordinaria forza spirituale degli abitanti del villaggio. In questa dinamica rigenerativa Ugyen attraversa un’esperienza di vita che lo condurrà a guardare con occhi nuovi Lunana e i suoi abitanti: riconoscerà l’importanza dell’essenziale, imparerà a regolare il proprio quotidiano con i riti e ritmi della comunità, sperimenterà il senso più profondo dell’accoglienza e dell’ospitalità sentendosi parte di una storia e di un’umanità che lo eccedono, farà i conti con un apparato affettivo dimenticato ma atteso.

Un canto, un sorriso, la scoperta di una vulnerabilità che è tutta umana. Che cos’è la felicità, dunque? Il film accompagna lo spettatore a considerare la complessità di un sentimento delicato e gentile come la tenerezza scaturita dalla nostalgia, la mancanza del suono di una voce, e attraverso la sua tensione spirituale, riflesso di una dimensione naturale imperscrutabile segnata dalla presenza grave e impetuosa delle montagne, interpella lo spettatore sul proprio mondo e sui propri modi.

Lunana è quel luogo dell’anima in cui Ugyen, ma chiunque, prima si perde e poi si ritrova beato, in uno stato di armonia, grazie alle buone relazioni vissute in particolare con i bambini della scuola. Lui è un maestro, e si dice che i maestri toccano il futuro: guardano in altum, immaginano, credono in un altrove che lentamente si dischiude. Perché insegnare, altrimenti? Il film fotografa bene l’innocenza dell’infanzia restituendo allo spettatore un’immagine pura dell’apprendimento. E questo sarebbe piaciuto a Truffaut per il quale «niente di ciò che riguarda l’infanzia è banale».

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Sull'autore

Matteo Mazza