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IL MIO GIARDINO PERSIANO (Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha)
Il dolce piacere della libertà

Una settantenne, vedova da trent’anni, ripiegata su se stessa, su una routine stanca e anonima nel suo bell’appartamento a Teheran: la figlia che vive ormai da vent’anni all’estero, un’amica ipocondriaca che la assilla al telefono, le corse in taxi dopo la spesa al mercato per non dover affaticare ginocchia già sofferenti. Una quotidianità solitaria, scandita da gesti e azioni di pura sopravvivenza, dal cucinare all’innaffiare le piante, interrotta dal desiderio di riprendere contatto con la vita, dopo un pranzo con le amiche di sempre, e trasformata in realtà nell’incontro inaspettato con un anziano tassista, un ex soldato anch’egli solo. Sulla scia di altri titoli iraniani recenti come La testimone e, soprattutto. Il seme del fico sacro, anche Il mio giardino persiano individua nell’universo femminile e nel suo tenace desiderio di cambiamento la risposta ai rigidi precetti morali e alle chiusure autoritarie sancite dalla repubblica islamica. Nel film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, autori anche della sceneggiatura, la denuncia politica appare subordinata al racconto di un riscatto esistenziale, ma se è vero che gli sviluppi dell’incontro della benestante Mahin con l’umile tassista Faramarz non presentano caratteri di spiccata originalità narrativa, il sottofondo sociale che sta alla base della vicenda resta invece denso e profondo, al punto da incidere più di quanto venga mostrato in primo piano. Dietro al tentativo della donna, discreto e imbarazzato, di concedersi un’avventura sentimentale, dietro ai bicchieri di vino e a un ballo nel salotto di casa, sul filo dei ricordi, dietro al rifiorire in tarda età dei richiami del cuore, in una serata di giovanile riscoperta di piaceri e passioni, serpeggia l’illusione amara di una libertà inaccessibile non solo alla protagonista del film, ma, di riflesso, a tutto il popolo iraniano. Facendo coincidere, nel ristretto spazio di un giardino condominiale, il privato con il pubblico, la dimensione affettiva si salda, dunque, con il messaggio politico, alimentato da una regia statica ma mai arida, bensì evocativa di una stagnazione forzata, dai dialoghi di un gruppo di anziani, che si lamentano delle pensioni basse e invocano il diritto a manifestare il loro dissenso, e dalla sequenza di un controllo della polizia morale, in un parco cittadino, con Mahin a prendere le difese di una ragazza accusata di non portare correttamente il velo. Uno squarcio, intergenerazionale, nel muro oppressivo del potere,

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.