“Sono molti ormai a domandarsi se restare stia diventando non solo una necessita ma addirittura una delle poche opportunità di vita e di salvezza offerta all’umanità”.
Da “La restanza” di Vito Teti (Einaudi, 2022)
Return to dust, il titolo originale di Terra e polvere del cinese Li Ruijun, contiene in sé tutte le sfumature del restare ancorati alla terra e ai suoi frutti, un’abbondanza che trasfigura periodicamente la povertà che caratterizza l’esperienza rurale primigenia della storia. Il protagonista Youtie (attore non professionista e zio del regista) salderà i suoi debiti, anche quelli che potrebbero essergli condonati, solo al momento del raccolto. Tutta la sua vita dipende dalle ritmiche e dagli umori della terra e non vorrebbe che fosse altrimenti.
Youtie non ha sentimenti negativi verso il prossimo, nemmeno quando potrebbe avere motivi per averli; non ha nulla da rivendicare, nemmeno quando è evidentemente sfruttato. Vive in uno stato di quiete interiore che vediamo sfumare solo quando la moglie Guiyng non riesce ad alzare il foraggio con il forcone sul carretto. Solo lì sentiamo uno sbotto, presto ridimensionato, ma da cui trapela per un attimo l’anima più ruvida del mondo contadino.
Guiyng è la sposa di un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie dei due poveretti: lei incontinente e disabile, molestata fin da bambina, lui schiavizzato dalla famiglia, chiamato “ferro” e lasciato sempre per ultimo nella gestione dei beni. Entrambi accettano questo matrimonio come finora hanno subito ogni altra angheria. Restano anche in questa nuova pagina della vita che si rileva meglio del previsto. Youtie e Guiyng sono, infatti, come due bulbi piantati da secoli nella terra e nel ritmo delle stagioni insieme ritornano a fiorire: l’uno accanto all’altro nella cura si accorgono di avere radici profonde, si rendono conto di trovare riparo l’uno all’ombra dell’altro.
Il timbro della terra si posa sulla loro pelle con la forma del fiore che resterà come una moneta che non ha prezzo. E’ la dignità della polvere dei mattoni che edificano un legame senza arroganza, della terra da coltivare, del grano pulito dalla pula, dell’asino che asseconda i frutti delle stagioni. E’ il pensiero di un vasetto di acqua calda portato nei pressi di chi torna dai campi, un’acqua senza coloranti… senza tè, senza erbe, senza nulla. E’ la vita priva di aggettivi di queste persone che imparano ad amarsi. «“Cura” è una parola – scrive sempre Vito Teti in “La restanza” – densa di significato, è sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, e il suo orizzonte semantico racchiude anche l’amore e la pena amorosa. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica. Accoglie in sé tutta l’attenzione necessaria nel rapporto tra l’uomo e le piante, tra l’uomo e gli animali, nel mondo che dividono. La cura è amore che accetta, perché possiamo amare in modo maturo ciò che conosciamo nella sua verità e nudità. E i luoghi richiedono amore vero, quello che nasce dalla salvifica schiettezza, quello che mette a nudo bellezze e bruttezze per esaltare la profonda complessità del reale». In tal senso dalla narrativa dell’oppressione e della costrizione Return to dust, un film senza sesso ma pieno di intimità, ci consegna all’orizzonte della libertà e della bellezza. Ruijun, protagonista del cinema indipendente cinese non amato dal Partito, con un’ode dolente e dolce di coloro che non surriscaldano il pianeta, continua la sua esplorazione del rapporto tra persona e territorio, sull’approccio delle comunità rurali con il cambiamento senza mai violare la privacy dei personaggi della sua immaginazione e chiedendo a noi lo stesso rispetto.