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KNIGHT OF CUPS
Malick sullo smarrimento esistenziale di uno sceneggiatore hollywoodiano

KNIGHT OF CUPS

Rick ha tutto: successo, denaro, donne, fascino e salute. La sua carriera di sceneggiatore hollywoodiano gli consente di flutturare da un party a un letto diverso ogni notte fra gli scintilii di Los Angeles e Las Vegas, e come un principe vittima di un incantesimo che gli ha rapito la memoria, ha perso il contatto con i valori della vita reale. Ad attenderlo è una crisi esistenziale attraverso la quale rimetterà tutto in discussione, inclusi i fantasmi che hanno abitato la sua vita.

Where are we now? A che punto siamo? si domanda retoricamente la voce fuori campo che già conosce la risposta. Nascosta nello spirito di un soffio come del resto il volto del più invisibile dei cineasti contemporanei, quella voce non sembra giudicare l’individuo che ramingo, alterna camminate in spazi immensi e deserti a vorticose frequentazioni dello show biz, bensì sembra amarlo come un figlio che ha smarrito la via. Del resto, Figlio mio, figlio mio.. io so che un’anima ce l’hai anche tu, dopo tutto rivela tale voce onnisciente dall’alto di un mistero infinito. Nel cuore di una crisi di valori sempre più incidente sull’Occidente contemporaneo, Terrence Malick torna a comunicare con il mondo attraverso il proprio anelito visionario in un film che ricalca perfettamente la parabola ascetica – e forse definitiva – di cui si compone il suo cinema, ormai apparentemente refrattario ad ogni poetica alternativa. Non vi è dubbio che le ultime quattro opere del regista-filosofo americano siano organizzate attorno a racconti palesemente meditativi sull’esistenza umana e sul decadimento morale di un’America sempre più in balìa di se stessa. Non fa dunque eccezione Knight of Cups, interpretato da un tormentato Christian Bale (Rick) accanto ai corpi “fantasmatici” della famiglia e delle sue donne (Cate Blanchett, Natalie Portman, Freida Pinto): egli appare quale un principe fiabesco destinato dal padre a un’impresa preziosa ma della quale si è scordato per aver bevuto di una pozione incantata. La metafora funziona quale unico espediente “narrativo” di un testo profondamente “anti-narrativo”, cadenzato a rigor di struttura in capitoli che rievocano le figure dei tarocchi. Di fatto, la trama dell’opera è tutt’altro che complessa, mettendo in scena fondamentalmente una quest esistenziale sulla falsariga di quelle proposte da Malick da The Tree of Life (2011) in poi. Da un punto di vista strettamente linguistico, il cineasta che ultimamente divide la cinefilia fra adoratori e denigratori, ha delegato il sodale nonché geniale d.o.p. Emmanuel Lubezki in un’(est)etica fra La Dolce Vita e La Grande Bellezza applicate alle Los Angele e Las Vegas contemporanee attraverso l’uso di vertiginosi tagli di luce dentro a inquadrature funamboliche e oblique, spesso nutrite da fish-eye destabilizzanti. A queste si alternano immaginari meditativi e liquidi creati da obiettivi grandangolari su spazi infiniti, perlopiù spiagge lunghe e deserte, dove si elevano sinfonie classiche dal sapore biblico. Già, perché “quando sei adulto e pensi di capire il mondo ti riscopri invece ancora più disperato e smarrito”.

Regia: Terrence Malick

Cast: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Freida Pinto

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Sull'autore

Anna Maria Pasetti

Anna Maria Pasetti Milanese, saggista, film programmer e critica cinematografica, collabora con Il Fatto Quotidiano e altre testate. Laureata in lingue con tesi in Semiotica del cinema all’Università Cattolica ha conseguito un MA in Film Studies al Birkbeck College (University of London). Dal 2013 al 2015 ha selezionato per la Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Si occupa in particolare di “sguardi al femminile” e di cinema & cultura britannici per cui ha fondato l'associazione culturale Red Shoes. . Ha vinto il Premio Claudio G. Fava come Miglior Critico Cinematografico su quotidiani del 2020 nell’ambito del Festival Adelio Ferrero Cinema e Critica di Alessandria.