La ragazza del mondo e Cuori puri, Easy-Un viaggio facile facile e Mine. E ancora: I figli della notte e La ragazza nella nebbia, Le verità e Brutti e cattivi. Storie asciutte, tenaci, prelevate dal tessuto lacerato della contemporaneità sociale, sorrette una buona padronanza dei meccanismi di regia e da precisi modelli di riferimento, estetici e linguistici, interpretate da una generazione attoriale che, nella freschezza dei propri anni, porta con sé una forza espressiva autentica. Le testimonianze credibili di un “nuovo cinema italiano”.
Sono 504 i film di ogni provenienza geografica usciti nelle sale italiane dal 1° luglio 2016 al 30 giugno 2017 (l’ultimo macroperiodo consegnato agli archivi e dunque “storicizzato”), una massa enorme e informe di opere, molte delle quali praticamente “invisibili”, contenente 153 titoli appartenenti al nostro Paese. Anche in questo caso, un corpus eterogeneo e variegato (lungometraggi di finzione, documentari, coproduzioni internazionali, prodotti su scala regionale…) ma di non facile “consultazione” da parte del pubblico per la scarsa reperibilità nei cinema di tanti lavori di minor impatto comunicativo e commerciale, tanto più se opere prime di giovani autori.
Una ricognizione proprio sullo stato di salute del cinema italiano alla luce degli esordi registrati negli ultimi 12-18 mesi (estendendo l’analisi anche ai debutti nel lungometraggio avvenuti da luglio a dicembre 2017) si muove dunque sulle orme poco chiare lasciate sul terreno da molte “pellicole fantasma”, non in grado, pertanto, di incidere per approccio spettatoriale né, di conseguenza, di proporsi come adeguato modello di riferimento. Ma insieme a manifestazioni per così dire residuali, non sono poche, al contrario, le testimonianze filmiche in linea con un’idea di cinema strutturata, autorevole e, non di rado, limpidamente autoriale: registri espressivi e ambientazioni non scontate e credibili, temi, stili e linguaggi significativi, già visibili e rintracciabili nitidamente sullo schermo o percepibili in filigrana, in forme ancora embrionali.
Per una autentica “mappa ragionata”
La ricerca di peculiarità e personalità tra i cineasti italiani esordienti nell’ultimo anno e mezzo, e soprattutto la decifrazione del possibile sviluppo delle loro qualità nell’immediato futuro, non possono, però, non essere fin da subito messe a confronto con i riconoscimenti tributati dalla critica, nel recente passato, ad altri analoghi, promettenti debutti. Se andiamo a scorrere i nomi dei vincitori degli ultimi dieci anni del David di Donatello come migliore regista esordiente, troviamo riunite, verificate nel tempo presente, luci e ombre, promesse mantenute e buone intenzioni svanite. All’apprezzamento generale per Anche libero va bene (David 2007), ad esempio, felice esordio dietro la macchina da presa di Kim Rossi Stuart, sono seguite, nove anni dopo per Tommaso, recensioni decisamente più tiepide; al convincente esordio de La ragazza del lago (2008), inoltre, Andrea Molaioli ha fatto seguire gli irrisolti Il gioiellino (2011) e Slam-Tutto per una ragazza (2016); l’entusiasmo suscitato da Gianni Di Gregorio con il suo delicato Pranzo di ferragosto (2009), poi, è quasi evaporato alla doppia prova di Gianni e le donne (2011) e Buoni a nulla (2014); di Valerio Mieli, invece, dopo l’ottima opera prima Dieci inverni (David 2010), si sono perse le tracce, mentre i due film di Rocco Papaleo successivi a Basilicata coast to coast (David 2011) ossia Una piccola impresa meridionale (2013) e Onda su onda (2016) sono risultati oggettivamente inferiori al suo debutto registico. Così come il meritatissimo David 2014 a Pif per La mafia uccide solo d’estate si è “affievolito” con il più ambizioso ma assai meno efficace In guerra per amore (2016).
Una prima lettura degli esiti artistici dei migliori esordienti dell’ultimo decennio sembrerebbe condurre ogni tentativo di “mappa ragionata” del nuovo cinema italiano ad un giudizio sostanzialmente negativo, o perlomeno chiaroscurale, spalleggiando la diffusa considerazione, scoraggiante, infondata e autolesionista, secondo la quale le aperture di luce, nell’opacità generale del made in Italy, prigioniero di una gloriosa “commedia all’italiana” ormai sfiatata e di un’ingombrante eredità di matrice neorealista, siano poche, episodiche e destinate ad essere riassorbite dal buio.
In realtà, se andiamo ad esaminare le annate più recenti delle premiazioni dei David di Donatello riservate agli absolute beginners, scopriamo che nel 2012 Francesco Bruni si era imposto con lo scoppiettante Scialla!, a cui nel 2014 ha fatto seguito il meno convincente Noi 4 ma a cui è poi subentrato uno dei migliori titoli di quest’anno, Tutto quello che vuoi; constatiamo che dopo il David 2013 per L’intervallo Leonardo Di Costanzo ha realizzato lo scorso maggio il solido, intimo e lucidissimo L’intrusa; osserviamo che in Se Dio vuole (David 2015) Edoardo Falcone poneva le basi per una spiccata sensibilità filmica alle relazioni umane maturata, pochi mesi fa (grazie anche al talento di Elio Germano), in Questione di karma; soprattutto, accertiamo che la vittoria nel 2016 di Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot ha aperto ll varco ad un cinema di “genere”, ibrido e trasversale, slegato dai consueti canoni espressivi, che sembrava del tutto impraticabile nel nostro Paese; e annotiamo che il David 2017, assegnato a Marco Danieli per La ragazza del mondo, colloca sotto i riflettori un altro incoraggiante autore, interessato a dare voce e forma a tematiche che bruciano sottopelle.
L’Italia nel cuore dell’Europa
Non è un caso che proprio La ragazza del mondo sia stato presentato, lo scorso anno, alle Giornate degli autori di Venezia, che la Quinzaine des réalisateurs di Cannes abbia accolto lo scorso maggio Cuori puri di Roberto De Paolis, che il Festival di Locarno 2017 abbia ospitato nella sezione Cineasti del presente Easy-Un viaggio facile facile di Andrea Magnani, che sempre a Venezia, lo scorso settembre, sia transitato in Orizzonti Brutti e cattivi di Cosimo Gomez e che I figli della notte di Andrea De Sica sia sfilato in concorso al Torino Film Festival 2016: queste (e altre) opere prime italiane hanno avuto il loro “battesimo” nei più importanti contesti festivalieri internazionali, a riprova di un’attenzione nuova, da parte dei talent scouts, nei confronti del nostro giovane cinema. E non è un caso nemmeno che a rappresentare il nostro Paese nella corsa al miglior film in lingua non inglese agli Oscar 2018 sia A ciambra, il viaggio di Jonas Carpignano nell’universo rom di Gioia Tauro. Non un’opera prima, d’accordo, ma appena seconda, presentata anch’essa alla Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes lo scorso maggio (dove ha vinto il premio Europa Label) e che vede Martin Scorsese produttore esecutivo. “Un film bello e commovente”, ha detto il regista americano, “che entra così intimamente nelle esistenze dei suoi personaggi da farti sentire in mezzo a loro”.
Insomma, pur tra tante “operazioni fotocopia”, velleitarismi senza paracadute, dilettantismi allo sbaraglio, il “nuovo cinema italiano” c’è, esiste e sta facendo di tutto per farsi notare. Portando sullo schermo storie asciutte, tenaci, prelevate spesso dal tessuto lacerato della nostra contemporaneità sociale. Manifestando, in numerose occasioni, un’ottima padronanza dei meccanismi di costruzione filmica, anche in chiave spettacolare. Dichiarando senza ritrosie i propri modelli di riferimento estetici e linguistici, non solo nazionali ma anche internazionali. Facendo affidamento su una generazione attoriale che, nella freschezza dei propri anni, porta con sé una forza espressiva autentica.
Alla ricerca di un futuro possibile ma doloroso
La ragazza del mondo e Cuori puri mostrano una comune direzione di marcia narrativa: il film di Danieli immerge la propria protagonista (Sara Serraiocco) in un continuo intra ed extra logistico, sociale ed esistenziale, un pendolo che oscilla incessantemente tra la comunità dei Testimoni di Geova a cui appartiene l’intera sua famiglia, sorretta da precise regole di autodeterminazione, e, appunto, il “mondo” esterno, rappresentato dal problematico ragazzo di cui la giovane si innamora (Michele Riondino), espressione di una realtà disordinata lasciata a se stessa, costellata di sbagli, ravvedimenti, cadute e risalite. Allo stesso modo, il lungometraggio di De Paolis vede la diciottenne protagonista (Selene Caramazza) divisa tra le certezze rassicuranti e di lungo respiro della fede cattolica, condivise con una madre devota e a suo modo premurosa, e un hic et nunc ruvido e aspro, nel quale, spinta dall’attrazione per un venticinquenne di borgata dal passato difficile (Simone Liberati), rischiare tutta se stessa.
Nel raccontare delle crisi identitarie di due giovanissime donne, La ragazza del mondo e Cuori puri si staccano dai cliché, rinunciando, attraverso un realismo vibrante della messa in scena, ad ogni giudizio sulle provenienze e sulle destinazioni dei rispettivi personaggi: le riunioni periodiche e il proselitismo dei Testimoni di Geova non paiono affatto caricaturali, nella pellicola di Danieli, così come nel film di De Paolis il coinvolgimento dei ragazzi in oratorio, da parte del parroco, e i suoi insegnamenti nel nome di Cristo, sono restituiti allo spettatore nella loro piena limpidezza.
La credibilità delle due operazioni filmiche, dunque, risiede innanzitutto in un’osservazione spirituale non pregiudiziale, e si addensa in una dicotomia certamente critica ma mai gratuita, che fa entrare in rotta di collisione il “prima” e il “dopo” senza per questo tracimare in un banale happy end, lasciando invece pieno di insidie, in entrambi i finali, il proseguimento delle due tumultuose love story. Entrambi i film, ecco il punto qualificante, sanno bene di cosa parlano. Entrambi i registi sanno come vogliono riverberare, sullo schermo, le laceranti tensioni dell’anima. E gli interpreti, nella loro efficacissima prova, riescono a restituire sullo schermo quell’agire delle pulsioni che, svincolandosi con fatica e sensi di colpa da cardini precostituiti, alimentato dal bisogno impellente di amare e di essere amati, prova a indicare loro, nonostante tutto, un futuro.
Lontano dai confini, vicino all’anima
Un altro “squarcio di vita” non meno insicuro, arroventato e complesso, ma presentato in forma di commedia, è quello offerto da Easy-Un viaggio facile facile, lungometraggio d’esordio di Andrea Magnani. La raffigurazione di un trentacinquenne depresso (Nicola Nocella), che vive con la madre e passa le sue inutili giornate davanti alla playstation, fino a quando il fratello gli chiede di riportare in Ucraina, in auto, la salma di un operaio morto per un incidente sul lavoro, apparentemente è sbrigativa, poco approfondita. Ma è proprio nel seguire l’ex promessa dei motori Isidoro (l’Easy del titolo del film, in un riuscito doppio senso lessicale), alle prese con un lungo viaggio attraverso i Carpazi, che affiorano le sottigliezze della sceneggiatura di Magnani: un lavoro di sottrazione continua (geografica, climatica, relazionale) che fa emergere, come un reagente chimico, smarrimenti emotivi e riagganci umani. …continua
Continua a leggere l’articolo di Paolo Perrone su Filmcronache n.4/2017
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