Elvis Presley secondo Baz Luhrmann aveva un dono: quello dell’attenzione. Poteva generarla, attirarla a sé e manipolarla. Come per un supereroe però il suo potere di anticipare i tempi, dettare le mode, creare una piccola rivoluzione nello sguardo sensuale, fu anche la sua maledizione. È questo il tema ricorrente che raccontano i film musicali recenti; grandi opere amatissime dal pubblico e spesso valorizzate anche nella stagione dei premi (Elvis non sarà da meno). Prendono gli individui che più ci hanno saputo emozionare con la loro arte e squarciano il velo del mito (o forse lo rafforzano in senso tragico?). Sono figure drammatiche, artisti in lotta contro il proprio dolore e braccabili dallo sfruttamento capitalista proprio per via di questa loro debolezza.
Tutto invecchia, tutto viene consumato in nome del denaro. L’industria meccanica produce e sfrutta le risorse cercando di alimentare sempre di più la domanda. Le mode, gli abiti, diventano nel dopoguerra sempre di più un “usa e getta” in nome del profitto, del continuo ricambio. Diventa impossibile soddisfare i bisogni in maniera stabile. Oggi ci troviamo alle prese con l’obsolescenza programmata della tecnologia. E per l’industria delle emozioni? Secondo Elvis le cose funzionano allo stesso modo. Lo diceva anche Rocketman, e in parte anche Bohemian Rhapsody.
Elvis lo fa con ancora maggiore lucidità, tanto da mettere il consumo di intrattenimento al centro tematico di un film che, superato lo spettacolo dinamico e sonoro, si rivela come una triste lettera di disillusione. Rappresenta tutto questo il personaggio del colonnello Tom Parker, interpretato da un Tom Hanks troppo truccato e un po’ posticcio, quasi irreale. Luhrmann lo rende un lucido possidente, e sfruttatore di risorse limitate. Non di terra, ma di emozioni e di attenzione.
Prende l’immagine del cantante, le emozioni che suscita, sia quelle positive che le negative, e ne fa business. Si giova degli scandali fino a che non diventano sconvenienti, tratta il pubblico come clienti che pagano per essere sedotti e compiaciuti. Tra il cantante e i suoi fan c’è uno scambio tipicamente amoroso, un corteggiamento in musica. Basta vedere come il regista inquadra i piani di ascolto: mentre Elvis canta le donne non lo ascoltano, fanno l’amore con lui.
Questo meccanismo seduttivo è alla base dell’industria dell’intrattenimento moderna. Le nuove piattaforme streaming si contendono l’attenzione molto più della stimolazione intellettuale. Essere fan, quindi prestare le proprie energie a un progetto artistico, significa firmare un contratto non scritto di fedeltà. Ci sono gadget da comprare, voci a cui fare da amplificatori, amare e odiare purché se ne parli. Da spettatori si crede di essere in controllo e invece siamo parte di un gioco. Ci rendiamo così conto che di Elvis ne esistono pochi, i Colonnelli Tom Parker invece sono ovunque.
Che sia questa una delle cause della crisi della cultura?