Paolo Perrone di Filmcronache recensisce da Venezia il film in concorso LOVE (KJÆRLIGHET) di Dag Johan Haugerud
Una dissertazione sull’amore, sul modo di vivere e condividere i sentimenti, le passioni e le relazioni. Secondo capitolo di una trilogia incentrata sulla sessualità, i sogni e, appunto, l’amore, Love di Dag Johan Haugerud emana una pacatezza di toni e atmosfere attenuata, ma non oscurata, dall’insorgere della malattia. S
pecchio di una società, quella scandinava, libera da pregiudizi e apparentemente serena, il nuovo lungometraggio del regista e scrittore norvegese utilizza con insistenza la comunicazione verbale, quale forma di contatto privilegiato tra i vari personaggi in scena (una pragmatica dottoressa, un compassionevole infermiere, un’impiegata del Comune, un geologo, un paziente dell’ospedale) e, di riflesso, quale strumento di raccordo con lo spettatore, informato senza sosta degli orizzonti affettivi dei protagonisti, spesso confidati reciprocamente a bordo di un battello che collega Oslo ad una vicina isola.
I dialoghi, troppi, sono il limite di Love, che pur avvolgendo le vicende in un ‘clima emotivo’ sensibile, accentuando la dimensione verbale limita le scelte di regia ad una anonima confezione visiva. Le immagini notturne della capitale, suggestive, associate ad una trama musicale evocativa, contribuiscono a dare armonia all’intero progetto filmico, eccessivamente spurgato, però, da tensioni e lacerazioni e, proprio per questo, fin troppo lieve e indolore. Non c’è nulla, qui, degli abissi introspettivi di tanta cinematografia nordeuropea, non ci sono graffi e ferite, solo qualche smagliatura esistenziale. Così, tra rifiuto del conformismo e spinta alla trasgressione, sui titoli di coda resta soltanto l’impressione di una placida navigazione degli affetti.