Servono due protagonisti senza peli sulla lingua per parlare di un tema urgente, ma troppo imbarazzante per affrontarlo senza retorica, come la sessualità per i disabili. “La timidezza delle chiome”, più che un documentario sembra un gesto rivoluzionario: la sovversione del pudico sfruttamento della diversità per emozioni facili. Invece la vita vera di Benjamin e Joshua Israel, due gemelli incontrati per caso dalla regista Valentina Bertani, mentre era in cerca di volti sui navigli di Milano, e seguiti per cinque anni a partire dalla maturità, arriva schietta come i due ragazzi. La famiglia Israel ci apre le porte di casa, si concede nelle sue fragilità. Ben e Josh hanno infatti una disabilità intellettiva e una voglia incontenibile di non essere definiti da essa.

Sono così giovani adulti alla scoperta del loro corpo e della loro sessualità. Grazie a volti che rimandano all’immaginario di Harmony Korine, Todd Solondz, e dell’underground indipendente, i fratelli bucano lo schermo guardandoci e coinvolgendoci in prima persona nei loro desideri.

“La timidezza delle chiome” è quella strana anomalia nello sviluppo degli alberi, che limitano la propria espansione per non intrecciarsi, non farsi ombra a vicenda. Una delicatezza da non confondere con una metafora dello spazio che crediamo essere richiesto dalla disabilità, in cui l’individuo è da proteggere in confini ben precisi. Non è sempre così. I due ragazzi non sono protetti più del necessario, vivono la vita appieno (fanno pure un’esperienza nell’esercito Israeliano), con tutte le gioie e i dolori che ne conseguono.

La timidezza del titolo non viene nemmeno dal loro carattere che esplicitamente racconta allo spettatore il desiderio di fare l’amore (o semplicemente sesso), il goffo tentativo di ordinare sex toys ma anche la voglia di amicizia, l’importanza di un lavoro che nobiliti e dia dignità, i sogni nel cassetto da affidare a una lettera da leggere e verificare di anno in anno.

Il film di Valentina Bertani trova invece nella metafora degli alberi rispettosi l’uno dell’altro, un concetto universale di crescita a tutto tondo, anche oltre la disabilità. Alla fine quella che vediamo è semplicemente la quotidianità di due fratelli che devono imparare a vivere. Non sono aspettati da un mondo che corre ad una velocità diversa. Però loro vogliono stare al passo, costruirsi il proprio spazio nella vita adulta.

Serve una famiglia attenta alla persona, alle sue possibilità prima ancora che alle aspettative della società per realizzare tutto ciò? Forse, e in questo senso mamma e papà Israel sono due esempi di come essere semplicemente genitori possa essere un atto straordinario. Che bella, ad esempio, la scena in cui il padre spiega cosa il piacere e la responsabilità di un rapporto sessuale. Un momento di puro affetto che ci viene regalato attraverso le parole, quasi a fare il paio con l’altrettanto bella sequenza (di finzione) del dialogo padre-figlio in “Chiamami col tuo nome”.

Padri e madri che conoscono intimamente i propri bambini, anche quando questi crescono e chiedono di sfuggire di mano. Serve coraggio a lasciarli andare nel mondo, e questo è il gesto d’amore più grande.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi