Qualunque cosa ci accada, ricordiamoci comunque che tutto è una via che porta a Dio,
anche le situazioni che giudichiamo peggiori.

Da “Non avere paura del corpo”
di Jean-Pierre Brice Olivier (edizioni Qiqajon, 2018)

A scrivere nero su bianco questa immensa e infinita consolazione è Jean-Pierre Brice Olivier, un domenicano del convento di Lille che nel 2015 con il suo saggio Non avere paura del corpo ha vinto il “Prix du livre de spiritualité”. Dopo aver visto (e rivisto, tanto è magnetico) il film Nessuno deve sapere di Bouli Lanners mi è venuto voglia di ritornare sulle pagine di Brice Olivier. I suoi sono pensieri di straordinaria bellezza e provocazione anche sul tema della castità, dell’incarnazione e della corporeità. E se ci sono tornata è tutta colpa di Phil e Millie, i due protagonisti di Lanners (nei panni lui stesso del primo), e della loro sofferta ricerca di portare alla luce un legame d’amore, senza lasciarlo all’oblio delle tenebre. Perché «chiunque ama – leggiamo al capitolo 4 della Prima Lettera di Giovanni – è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore».

Eppure nella sua comunità, nell’isola di Lewis in Scozia, Millie non si sente libera di amare come donna adulta e architetta la possibilità di farlo nel tempo ferito e sospeso dell’amnesia di Phil, un operaio belga della fattoria della sua famiglia. Ne approfitta come fosse finalmente giunto il suo tempo di grazia – un tempo fuori dal tempo – per accedere ai sensi e a quell’intensità affettiva che sente di non potersi concedere. Si aiuta come può, anche con il whisky locale assunto come un letterale anestetico, per destabilizzare almeno per qualche ora il rigore comportamentale in ambito affettivo e sessuale a cui sente di doversi attenere, tanto da essere nota in paese con il soprannome “Regina di ghiaccio” per la scia di anaffettività che lascia dietro di sé. E nessuno, così desidera Millie, dovrà essere messo al corrente di questo scioglimento dei ghiacciai.

«Perché nessuno deve sapere» è la domanda che, abbracciandola, Phil le sussurra sulla sua pelle dopo il loro primo rapporto sessuale ed è anche la domanda affidata a noi spettatori alle prese con un amore adulto, sebbene romantico, pronto ad aprirci ad una profonda lettura spirituale dei personaggi ma non meno della nostra vita. Il montaggio alternato tra la pensosità del paesaggio, i dettagli vividi di rughe del corpo dei protagonisti e i frammenti della predicazione presbiteriana domenicale più spesso tesi a sottolineare la tensione immorale insita nella persona, contribuiscono a creare progressivamente una pregnante attesa del ritorno della memoria di Phil dopo l’ictus, come tempo di “resistenza e resa” per i due amanti. Lanners così alza il ritmo interiore di un film che, in realtà, procede, invece, con una ritmica meno tesa proprio perché così richiede il paesaggio circostante.

Tra l’altro Lanners, di nazionalità belga, fin da bambino ha sempre creduto di avere origini scozzesi tanto è l’affetto che ha sempre avuto per questi luoghi che, in realtà, ha visitato solo molto più tardi da ventunenne (e da lì in poi praticamente ogni anno). Non nascondendo le poche possibilità della sua famiglia di origine, il regista racconta quanto l’immaginazione non sia un talento generato solo delle opportunità di una famiglia abbiente. Al contrario dopo essere stati rapiti da questa storia d’amore ci sprona a tornare rinnovati nelle nostre vite, a continuare a viverle – parole sue – perché è la cosa migliore che ci rimane da fare. Come a Phil prima di andarsene da questo mondo non rimane altro che prendere per mano Millie, non solo sulla spiaggia dove nessuno li può vedere, ma anche al rinfresco di un funerale dove tutti verranno a sapere quello che nessuno poteva anche solo immaginare. A Phil non rimane che liberare Millie dalla sua prigione invisibile, perché «si può essere casti – scrive Brice Olivier – pur avendo relazioni sessuali, così come si può non essere casti anche se si resta vergini». Quell’amore nel dono che metterà Phil nella possibilità di poter pronunciare il suo “tutto è compiuto”.

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.