E’ da un anfratto, nel quale si era nascosto, che a Budapest, quattro anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, comincia la storia di Andor, un bambino ebreo che nel ‘57, ormai tredicenne, dopo la rivolta antisovietica soffocata dal regime comunista, vede irrompere nella propria vita e in quella della madre un uomo spiccio e brutale che afferma di essere suo padre, quel padre, deportato e dunque assente, che il ragazzo aveva invece idealizzato come indispensabile sostegno psicologico e identitario. Al terzo lungometraggio dopo l’esordio esplosivo con Il figlio di Saul e il successivo, affascinante Tramonto, il nuovo film di László Nemes, ispirato all’infanzia del proprio genitore, prosegue l’esplorazione in chiave storica di un Paese, l’Ungheria, intrecciando memoria privata e destino collettivo, restringendo il racconto al perimetro classico del triangolo familiare senza per questo rinunciare alle allusioni metaforiche e alle ricorrenti simbologie. Adottando un registro estetico meno ricercato rispetto ai lavori precedenti, nei quali immersivi piani sequenza agivano da detonatore di spazi, luoghi ed epoche, Orphan posiziona la macchina da presa ad altezza del giovane protagonista, collocandolo in una marginalità contrassegnata dal senso della perdita e dell’abbandono, dalla quale egli fatica ad uscire, assommando su di sé le tante, silenziose fratture. Girato in pellicola, ingiallito da tinte seppia e ocra, sorretto da un consistente sforzo scenografico, Orphan, però, per più di metà film disperde azioni e relazioni in una cornice narrativa alquanto evanescente: la mancanza di un’adeguata tensione drammaturgica richiude infatti i personaggi in uno sterile appiattimento, arrivando a stringere solo nell’ultima mezz’ora, quando le vicende diventano significative e i profili, a quel punto, si fanno tridimensionali. Così come pure gli inquietanti fantasmi del Novecento.
ORPHAN (László Nemes) I fantasmi di Budapest
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