Non sarà semplice raccontare ai nostri spettatori Denti da squalo di Davide Gentile. Siamo troppo abituati a blockbuster estivi con mostri che emergono dall’acqua. Appena si vede un “mostro” pensiamo al pericolo. Si può interpretare erroneamente così anche la locandina, bellissima, ma che racconta poco quello che è veramente il film. Lo facciamo noi, a partire proprio da quel luogo intrigante che si vede nell’immagine promozionale.

Denti da squalo è la storia di formazione di un bambino, Walter, che deve crescere alla svelta. Non per sopravvivere, ma per andare avanti. Ha di recente perso il padre, entrato nella vita criminale della periferia romana, e vive con la madre in lutto. Gira in bicicletta nei giorni di una calda estate. Prende un sentiero tra gli alberi ed entra in una villa abbandonata. Lì c’è un’enorme piscina. Dentro, uno squalo. Niente horror né tensione, ma un incontro significativo: quello con Carlo, il predatore imprigionato e un altro ragazzo “custode” del luogo. Tra i due si crea un rapporto Lucignolo-Pinocchio, un’amicizia stretta anche se piena di errori e leggerezze. È funzionale a fare quelle esperienze sbagliate che nel cinema aiutano a crescere, a capire i propri vuoti e quindi a cambiare.

 

All’interno della villa c’è anche una scala che porta in una stanza interrata con una vista mozzafiato sull’interno della piscina. Come se fosse un enorme acquario i due si possono guardare in faccia. È un luogo dell’anima, il simbolo più forte che trova il film per visualizzare il dolore, la rabbia, la paura che ci facciamo quando siamo in preda alle emozioni selvagge. Così Walter si avvicina al vetro come se fosse uno schermo cinematografico (si ricorda la scena iniziale di Persona di Bergman nel suo tocco alla superficie). Come richiamato si avvicina lo squalo comparendo dall’acqua intorbidita. L’inquadratura è quella della locandina, ma il contesto della sequenza evita il fraintendimento che l’immagine porta con sé.

Nessun pericolo o minaccia: lo squalo, che è reale, è anche un animale in cui il bambino proietta le sue inquietudini, il suo sentirsi intrappolato nel ricordo di chi non c’è più. La villa che lui esplora, è come uno scheletro della sua persona. Lì vi ritrova cimeli dal passato del padre, il padre stesso sotto forma di fantasma, un amico che assomiglia molto a quello che lui potrebbe diventare da grande. In questo paesaggio brullo e morto, che guarda a Gomorra di Matteo Garrone, il percorso del protagonista è quello di ritrovare la vita. Questo si può fare in due modi: riconciliandosi con quello che è stato e prendendosi cura degli altri. Solo così si può ritornare a tuffarsi nelle acque libere, per proseguire il proprio viaggio.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi