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CANNES 2023: IL PALMARÈS
Tra verità e finzione

La verità e la finzione. La realtà, con tutte le sue implicazioni esistenziali, relazionali, sociali, storiche, e la sua rappresentazione cinematografica, ripensata necessariamente in forme personali, immaginarie e creative. Sono questi i poli tematici riassuntivi della 76ª edizione del Festival di Cannes, nella quale, in effetti, molti dei film in concorso hanno oscillato tra la riproduzione oggettiva del reale e la sua restituzione soggettiva, in un confronto dicotomico finalizzato, in qualche modo, alla fuoriuscita liberatoria da una stagnante ‘zona di mezzo’ contenutistica e, non di rado, sostenuto, dal punto di vista registico, da una pregevole architettura stilistica ed espressiva.

È il caso, ad esempio, della Palma d’oro di Cannes 2023, Anatomie d’une chute della francese Justine Triet: l’anatomia di una caduta (quella di un uomo dalla finestra di uno chalet di montagna, che genera l’indagine giudiziaria in cui la moglie è imputata per la morte del marito) che, in bilico tra suicidio e omicidio, si trasforma nell’autopsia di una coppia. Un trial movie proteso all’affiorare della verità processuale, ma irrobustito da un meticoloso scavo psicologico che punta a qualcosa di più profondo e universale, l’analisi delle dinamiche tra coniugi, ‘liquide’ e cangianti. E’ il caso anche di The zone of interest del britannico Jonathan Glazer (Gran premio della giuria), film concettuale e astratto in cui l’orrore dell’Olocausto viene relegato in un ‘fuori campo’ sonoro e visivo lasciando invece in primo piano la descrizione idilliaca della famiglia del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della loro quotidianità nella casa con giardino adiacente al campo di concentramento, di cui si odono in sottofondo, senza sosta, spari, urla, latrati.

Anche Fallen leaves del finlandese Aki Kaurismäki, Premio della giuria, è ancorato saldamente alla realtà, introducendo temi quanto mai odierni e dirimenti (il disagio affettivo, la piaga dell’alcolismo, la precarietà lavorativa, la guerra in Ucraina) individuando però nell’amore l’antidoto indispensabile ad una contemporaneità disadorna e disumana. Un messaggio di solidale, umanissima complicità che il Premio alla miglior regia, assegnato dalla giuria presieduta dallo svedese Ruben Östlund a La passion de Dodin Bouffant del vietnamita naturalizzato francese Trân Anh Hùng, ha reso ancor più esplicito: un film ricolmo di grazia, il suo, dove, esemplificato nella figura di un gastronomo e della sua fedele cuoca, il cibo è sinonimo di vita e la cucina è non solo la fabbrica dei piaceri della tavola, ma anche la sorgente dei sentimenti più puri.

La complessità del reale, la sua ambiguità, i rischi di manipolazione ad esso collegati caratterizzano, seppure con modalità narrative diverse, Monster del nipponico Kore-Eda Hirokazu (Premio alla miglior sceneggiatura) e About dry grasses del turco Nuri Bilge Ceylan (Premio alla migliore attrice, Merve Dizdar). Il primo è una ricognizione famigliare dalla struttura tripartitica fondata sul rapporto tra una madre, il proprio figlio e il contesto scolastico ed educativo in cui egli è immerso: un’esplorazione consueta, nella poetica del regista giapponese, ma qui più radicale del solito, in quanto votata, oltre la superficie dei legami relazionali, alla ricerca di verità nascoste. Il secondo, tra i titoli migliori di Cannes 2023, nel raccontare di un giovane insegnante in un remoto villaggio dell’Anatolia si configura come un trattato filosofico in immagini, dalle profonde domande di senso, intimo e carsico.

Infine, Perfect Days del tedesco Wim Wenders (Premio al miglior attore, Kōji Yakusho), ambientato in Giappone, nonostante la sua apparente semplicità è parso la sintesi più efficace tra sguardo ontologico e filtro cinematografico: la storia di un sessantenne abitudinario e d’animo gentile che, a Tokyo, pulisce con inusuale dedizione i bagni pubblici sboccia, sullo schermo, in una vera e propria poesia della quotidianità. Nella quale l’organizzazione meticolosa della propria vita, preservata dalla indifferente deriva della modernità, genera una continua, rigenerante scoperta di sé e degli altri.

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.