La canzone “Le cose più rare” di Cosmo con cui si chiude il film Chiara di Susanna Nicchiarelli è stilisticamente un pugno nello stomaco rispetto al trattamento filologico in termini linguistici e sonori imposto con rigore a tutto il film dedicato alla Santa d’Assisi. Eppure in questa scelta finale pienamente contemporanea, una sorta di smarcamento di ribellione, ci sta la possibilità di sigillare la narrazione con la promessa – come canta Cosmo – che «forse un giorno ci rincontreremo», dopo la morte che ci spaventa e non sappiamo vivere, dopo il dissolvimento della carne, perché «saremo orizzonti e ci potremo ammirare» e «ci riscopriremo nelle cose più rare». Chiara e Francesco, Chiara e le sue sorelle, le sorelle di Chiara e i fratelli di Francesco si potranno reciprocamente ammirare col passare dei secoli grazie al nostro intuirli come “orizzonti”, come mete verso cui tendere.
È questa la proposta che rimane alla fine dei titoli di coda di Chiara: un’esperienza di comunione, l’abbraccio tra uomini e donne separati dall’istituzione, una speranza che rammenda anche le differenze divisive vissute in terra, una compiutezza eterna che supera anche la sepoltura della carne e la separazione dagli affetti di questo mondo. È la comunione dei santi raccontata dalla regista laica (classe 1975) di Nico, 1988 e Miss Marx, altre due opere dedicate ancora una volta a figure di donne capaci di suggestive quanto rivoluzionarie anomalie. Lo sguardo di Nicchiarelli è, ormai, allenato a riconoscerle mettendo così insieme una filmografia che spazia in contesti ed epoche diverse con appartenenze e filosofie talvolta quasi contrapposte a dimostrare la libertà di pensiero e ricerca della regista-sceneggiatrice-attrice.
Chiara è volutamente un film senza un inizio e senza una fine. Non conosciamo in tal senso la Santa, in termini perfettamente biografici o devozionali, perché non vediamo né la nascita né la morte di questa donna così carismatica. Il film inizia dai diciott’anni di Chiara con la fuga dalla sua famiglia nobile e termina con una donna ancora relativamente giovane che si batte in ogni modo, anche con il Papa (il cardinale Ugolino divenuto papa Gregorio IX interpretato da Luigi Lo Cascio) per mantenere la radicalità francescana delle origini. Nella scelta di questa porzione biografica si sente perfettamente il desiderio di portare Chiara ai giorni nostri, ai giovani, a quelle persone che hanno ancora voglia di rompere con l’opulenza per una scelta di sobrietà e redistribuzione dei beni anche per i meno abbienti. Ne è una prova lo sguardo in macchina finale (una Margherita Mazzucco non da capogiro ma di certo autenticamente rispettosa nel tentare di dare un volto a Chiara), più che mai determinato a vivere la povertà e la carità, ma mai segnato da arrogante fierezza o da aperta ostilità. Uno sguardo che interpella noi spettatori, secondo la teorica funzione dell’espediente cinematografico, che se da una parte turba la ricerca di una sintesi stilistica dell’opera, dall’altra politicamente cerca la complicità dello spettatore: ci disturba o ci affascina far parte di un sogno di giustizia che tutto era tranne che di clausura?