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SUPER HAPPY FOREVER – LA RAGAZZA DAL CAPPELLO ROSSO (Kohei Igarashi)
Le tracce dei ricordi

Accompagnato dall’amico Miyata, Sano torna a Izu, una località balneare del Giappone dove cinque anni prima si era innamorato della moglie Nagi e decide di soggiornare nello stesso hotel dove si erano incontrati alla ricerca di un cappello rosso che possa aiutarlo a riannodare i fili della sua disperata storia d’amore.

Presentato nel concorso delle “Giornate degli autori” alla Mostra di Venezia del 2024, Super Happy forever è il quarto lungometraggio diretto dal giapponese Kohei Igarashi, che qui firma il suo film più maturo e intimo. Una meditazione sul lutto, sulla persistenza del ricordo, sulla voragine della perdita e sul lento e inesorabile lavorìo della memoria affettiva espressa attraverso un’enunciazione minimale e rigorosa, perfettamente in linea con certa tradizione giapponese, benché non priva di originalità e di una propria personalità.

Quello che intraprendono il protagonista Sano con l’amico Miyata — presenza silenziosa e discreta che sembra quasi un alter ego dello spettatore — è allo stesso tempo un viaggio fisico e mentale: non un pellegrinaggio nel luogo del ricordo, quanto il disperato tentativo di riattivare la presenza dell’amata Nigi attraverso i segni lasciati lungo il cammino. Uno di questi, il più banale e al tempo stesso più carico di significato, è un cappello rosso perduto che diventa filo conduttore e oggetto-feticcio, un vero e proprio simbolo del non detto, di ciò che è stato trattenuto e che non è stato possibile esprimere.

Il regista nipponico costruisce il proprio film come un dispositivo stratificato: il tempo narrativo è infatti spezzato e ricucito, messo in scena senza didascalismi attraverso lo slittamento tra il presente e il passato. Esemplare in tal senso è il segmento centrale del racconto, quello nel quale si rivive l’incontro tra Sano e Nagi, informato di luce, di gentile ironia, di dettagli affettivi che contrastano il grigiore emotivo del presente. Un contrappunto lirico che Igarashi gestisce con sapienza, senza scadere mai nella nostalgia, e soprattutto capace di illuminare il senso della perdita trovandone la temperatura emotiva ideale, oscillando tra sospensione e trasparenza, tra densità psicologica e la leggerezza del quotidiano.

L’adozione di una struttura narrativa non-lineare — divisa in due  dall’unico movimento di macchina qualificante, che dunque si assume il compito di “cucire” i due tempi del racconto — permette anche al film di far proprio il concetto junghiano di “sincronicità”. Aspetto che emerge anche grazie al maturo stile dell’autore, composto da inquadrature statiche, campi lunghi contemplativi, un utilizzo rarefatto del sonoro – che non sottolinea mai e che anzi lavora per evocazioni (soprattutto nell’uso reiterato di Beyond the Sea) – e di Long takes che favoriscono il lavoro sulla tridimensionalità dei protagonisti. E che nel gesto del passaggio del cappello (da Nagi a una giovane cameriera vietnamita) sa tradursi in una piccola epifania morale, laddove il ricordo, se condiviso, sopravvive al dolore, si trasforma, e può farsi dono. 

Super Happy Forever è insomma un film che non grida, ma sussurra con grazia e profondità. Esempio di un’idea di cinema che si affida ai silenzi, alla durata, agli oggetti carichi di assenza. E che preferisce ascoltare invece che spiegare.

Regia di Kohei Igarashi

Con Hiroki Sano, Yoshinori Miyata, Nairu Yamamoto, Hoàng Nhu Quýnh

Francia, Giappone, 2024, 

Durata 94’

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).