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TFF 2023: TRA CULTURA E SPETTACOLO
Dodici opere prime o seconde e sguardi non omologati per 41ma edizione

Un programma “ricco, ambizioso ed elaborato”, che ha proposto “il cinema del futuro, come è nella tradizione di un festival che ha scoperto tanti autori, e che ha grande attenzione per il cinema del passato”. Ma soprattutto, un festival che ha cercato di “essere punto di incontro tra il cinema come cultura e il cinema come spettacolo”. Le parole di Steve Della Casa, al suo secondo e ultimo anno di direzione del Torino Film Festival (prima di lasciare il posto, nel 2024, a Giulio Base), riassumono con efficacia la 41ª edizione del Tff. Una rassegna che, inaugurata sotto la Mole il 24 novembre e conclusasi il 2 dicembre, ha visto nel concorso lungometraggi, come di consueto, il suo principale centro d’interesse: dodici opere, prime o seconde, provenienti da Canada, Corea del Sud, Argentina, Danimarca, Italia, Francia (due titoli), Belgio, Russia, Ucraina, Arabia Saudita, Ungheria. Sguardi non omologati, ancora in fieri ma sospinti da una vivace ricerca linguistica e alimentati da una precisa volontà di ridisegnare i confini contenutistici ed estetici del cinema contemporaneo.

Non è un caso che a vincere il Premio per il miglior film del Tff 2023 sia stato La palisiada dell’ucraino Philip Sotnychenko, opera prima “complessa, di grande libertà registica nella costruzione delle scene che, concatenandosi, trovano il loro senso autonomo”, come recita la motivazione espressa dalla giuria. Aperto da un lungo incipit collocato in tempi recenti, prima dello scoppio del conflitto con la Russia, ma, per il resto, ambientato nel 1996, pochi mesi prima che il Paese diventasse indipendente e firmasse il Protocollo n.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, abolendo la pena di morte, La palisiada (titolo che riprende, distorcendolo, l’aggettivo “lapalissiano”) mette in relazione due colpi di pistola, esplosi a venticinque anni di distanza l’uno dall’altro, e due generazioni, quella dei padri e dei loro figli. Chiamando in causa, per la comprensione delle vicende di ieri e di oggi, sia gli uni che gli altri.

L’indagine di due colleghi e amici, un detective e uno psichiatra forense, incaricati di fare luce sull’omicidio di un colonnello della polizia ed entrambi, tempo prima, innamorati della vedova della vittima, è la molla narrativa del film. Ma la loro immersione in un caso sempre più complicato e il recupero di ricordi ed eventi che sembravano dimenticati permettono a Sotnychenko (nato a Kiev nel 1989) di restituire sullo schermo, tra finzione e documentario, un clima di estrema incertezza esistenziale che, dal passato, si proietta idealmente, in chiave di eredità storico-politica, sul presente. Una ricostruzione di un delitto, dunque, deprivata di ogni enfasi, secca e rigorosa, che procede per frammenti scomposti, con meticolosi piani sequenza alternati a rigide inquadrature fisse, obbligando lo spettatore a ricomporre tracce, tempi e significati di una verità sfuggente.

Il Premio speciale della giuria assegnato invece a Le ravissement di Iris Kaltenbäck (per il quale Hafsia Herzi, già protagonista di Cous cous di Kechiche, ha vinto il Premio per la migliore attrice) ha posto sotto i riflettori un film più tradizionale nell’impianto ma compatto, coinvolgente, riuscito sia sotto il profilo del racconto che sul versante registico/attoriale. Opera prima della Kaltenbäck (parigina, classe 1988), Le ravissement riprende e dilata in forma di lungometraggio un corto dell’autrice fondato su un simile spunto narrativo, il rapimento, da parte di un’ostetrica, del neonato della sua migliore amica. Una sottrazione consentita dall’aiuto offerto, come baby sytter, alla vera madre del piccolo, caricata però di menzogne, non solo verso di lei ma anche nei confronti di un autista di autobus, originario dell’ex Jugoslavia, disilluso e solitario, al quale la donna fa credere che il bimbo sia il frutto della loro unica notte d’amore.

Lacerante nel suo vuoto affettivo, palpitante nel suo desiderio disperato di maternità, il film della Kaltenbäck smuove emozioni intime e intense, in una tela di relazioni (fra l’ostetrica, la genitrice e il conducente) costruita con naturale, sensibile osservazione. Un bell’esordio, delicato e maturo, con la Herzi (alla cui vittoria si affianca la menzione speciale a Barbara Ronchi, protagonista di Non riattaccare di Manfredi Lucibello) efficace nel tratteggiare un personaggio dai due volti: una donna dalla tenuta comportamentale apparentemente limpida e lucida, devota alla sua professione ospedaliera, ma in realtà opaca nei pensieri e nelle azioni, inghiottita dalla solitudine e mossa dalla vulnerabilità affettiva.

Un altro titolo per metà di produzione francese (l’altra metà è italiana), Linda veut du poulet!, si è aggiudicato il Premio alla miglior sceneggiatura. Diretto da Sébastien Laudenbach e Chiara Malta, è un prodotto di animazione dal taglio personale, sia narrativo sia, soprattutto, stilistico, che richiama alla memoria Chomet, Tati e il Malle di Zazie nel metro, tratto a sua volta dal romanzo di Queneau: la storia di una giovane donna, vedova, che, dopo aver punito ingiustamente la figlia di otto anni promette, per rimediare, di cucinarle un pollo con i peperoni (il piatto preferito dal papà, scomparso prematuramente), si colloca in un quartiere di case popolari e si svolge in un giorno di sciopero generale, quando tutti i negozi sono chiusi.

Se il tratto del disegno animato è volutamente infantile, le problematiche che Linda veut du poulet! mette in campo investono invece, sia pure in forma di commedia adrenalinica, gli adulti, messi di fronte alle loro (mancate) responsabilità: in un girotondo vorticoso, gioioso e tenero ma profondo, zie e cagnolini, gatti e poliziotti, camionisti e bambini compongono una moltitudine di personaggi vispi e tenaci, espressione di un mondo in via d’estinzione, irrisolto ma garbato e comprensivo.

Resta da dire, infine, del riconoscimento al migliore attore, attribuito all’argentino Martín Shanly, regista, oltre che interprete, di Arturo a los 30: un brillante coming of age tardivo, con un uomo, alle soglie della maturità, segnato da un trauma del passato e incapace di trovare la serenità. Un individuo disadattato ma divertente, che partecipando al matrimonio del suo ex migliore amico rimane coinvolto in un incidente stradale dal quale riesce a uscire illeso. Da quel momento ricordi, pensieri, rimpianti e rancori affollano la sua mente, confondendosi con gli eventi della serata. Un mix di sensazioni ed emozioni a cui Arturo a los 30 riesce a dare forma, attraverso un registro da commedia al contempo malinconica e cerebrale.

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.