Il primo film parlato l’ho visto la volta che sono stato, per il mio primo viaggio fuori dal paese, a Palermo: nel 1933. Entrando nella sala buia ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era Il segno della Croce, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi films muti. E Francesca Bertini, Pina Menichelli, Diana Carene e Lupe Vele mi suscitavano più ammirazione, desiderio e – perché non ammetterlo? – adorazione di Elissa Landi e di altre nuove dive. “Je t’adore, à l’égal de la voûte nocturne, o vase de tristesse, o grande taciturne”. La volta notturna, la tristezza, il silenzio: il richiamo a quel cinema, a quelle dive, è per me irresistibile.
Ma il film muto che segnò una svolta nel mio intendere il cinema, nell’amarlo, nel voler persino farlo (fin oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore), fu quello di Marcel L’Herbier tratto dal Mattia Pascal di Pirandello. Era un film diverso, apriva, mi parve, possibilità diverse. Merito di Pirandello, più che di L’Herbier. Ma non starò a scrivere cose che – aggiungendovi il senno del poi – ho già scritto.
Arrivava intanto il parlato: in cui travasai, pur con qualche residua nostalgia, tutto l’amore che avevo per il muto. Studiando intanto a Caltanissetta, avevo modo di vedere più films: uno al giorno, e a volte anche due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui films visti. Avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa. Non molto curiosa, a pensarci bene: perché per lui, per me, per altri della nostra generazione e della nostra vocazione, il cinema era allora tutto. Tutto. Come poi, con un certo scarto di anni, per Manuel Puig. Chi non l’ha letto, cerchi il suo Tradimento di Rita Hayworth: vi troverà una più articolata rappresentazione di certi stati d’animo che io sto cercando di esprimere.
Io però non da Rita Hayworth (tanto per dirla con una battuta) mi sento tradito, ma dal cinema. E’ diventato altra cosa di cui, in effetti, non c’era bisogno se non per masse miseramente “bisognose”: è diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia.
(Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile)