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BROKEN RAGE, la recensione del film di Takeshi Kitano
Il ritorno di un regista di culto che non graffia

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C’è stato un tempo in cui la Mostra del Cinema era una continua scoperta. Si entrava in sala e se ne uscita cambiati, o almeno con un’idea nuova di narrazione. Una parte importante di quest’epoca era dovuta alla scoperta del cinema dell’estremo oriente, diverso da paese a paese ma ugualmente dirompente: c’era la Cina di Zhang Yimou, c’era la Corea del Sud di Kim Ki-duk e c’era il Giappone di Takeshi Kitano, vincitore del Leone d’Oro nel 1998 con l’indimenticabile Hana-Bi, un misto di violenza e dolcezza, di silenzi e spari, in grado di offrire un nuovo sguardo sul mondo. Kitano diventò un autore di culto per le giovani generazioni, si crearono rassegne su di lui, si recuperarono i suoi film precedenti, ogni sua nuova uscita era un evento.

Ora quel tempo è finito, non ci sono più quei fenomeni di massa, quelle scoperte preziose, quel radicale mutamento di prospettiva che c’era allora. Ma anche quei grandi autori non sembrano più in grado di offrire le novità viste allora: Zhang Yimou ha scelto i film di genere, Kim Ki-Duk è tristemente scomparso nel 2020 e Kitano sembrava aver perso la sua vena creativa dopo Zatoichi, Leone d’argento nel 2003. Vedere dunque in programmazione, sia pure Fuori Concorso, un suo nuovo film avrebbe potuto dare la speranza che quel grande cinema sarebbe potuto tornare. Una speranza subito tristemente delusa, fin dall’inizio di Broken Rage.

Si tratta infatti di un piccolo film, sia per la breve durata che per le ambizioni. La breve storia di un killer su commissione, che poi entra nella criminalità organizzata come collaboratore di polizia, viene raccontata due volte, la prima col tono tragico, in cui il killer è spietato e implacabile, la seconda con quello comico in cui lo stesso protagonista che fa le stesse cose è goffo e maldestro. Ma oltre questa idea non c’è niente. La storia è talmente breve che già nella prima parte non acquista nessuna profondità, il protagonista non ha alcuno spessore e resta una macchietta in una sequenza di scene didascaliche. Segue una sorta di intervallo in cui si dice attraverso delle scritte che lo scopo è far trascorrere del tempo per raggiungere una lunghezza del film accettabile.

Infine la storia viene raccontata nuovamente con un tono comico, di una comicità triviale, con una sequenza di gag da baraccone che più che il riso suscitano un sorriso malinconico, di compassione per un grande regista che si affanna a risultare simpatico – come in fondo era nelle sue corde, dato che la sua carriera inizia dalla televisione d’intrattenimento comico – ma non ci riesce, denunciando soltanto l’esaurirsi della suo vena poetica e creativa.

Si tratta insomma un film sostanzialmente inutile, che non fa che mettere in ridicolo un regista che un tempo ha segnato un’intera generazione di spettatori.

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Sull'autore

Alessandro Cinquegrani