L’Importanza del contesto. “Cara Edith, lurida vecchia str***a, non sei altro che una piattola succhiafave e una grandissima tr**a”. Con un dialogo del genere, in qualsiasi altro film, l’esercente delle Sale della Comunità si sarebbe trovato a giustificare al proprio pubblico la scelta di programmare un film contenete un turpiloquio di tale specie. Invece, siccome l’insulto viene pronunciato in Cattiverie a domicilio ed è contenuto in una lettera dal mittente anonimo, consegnata alle signore perbene di una cittadina inglese nel 1922, la sala scoppia in fragorose risate liberatorie.

È il potere del cinema come valvola di sfogo. Quello di Cattiverie a domicilio non è tanto differente dall’effetto che ha sortito Barbie sulle adolescenti. Prende una rabbia che non si sa di avere, nello specifico quella contro il patriarcato nel film della Mattel e Greta Gerwig, quella contro le costrizioni della morale e della religione e della comunità giudicante nell’opera di Thea Sharrock, e poi metterlo in scena come un’estensione dei pensieri e delle pulsioni dell’audience. L’effetto è potente, soprattutto in sala!

Gli insulti sono, di per sé,  uno strumento comico da cinema greve. Quello che definiremmo “per adolescenti”. Eppure più sono creativi più fanno ridere, a qualsiasi età. Così anche il pubblico più maturo, quello con la tessera del cineforum in tasca, si trova a sghignazzare per riferimenti scatologici e suggerimenti di penetrazione. La volgarità si perde nel contesto e si trasforma in una valvola di sfogo che solo il cinema può permettere, senza peccato o vergogna.

In Cattiverie a domicilio si sta dalla parte delle lettere. Fanno quello che vorremmo fare anche noi che guardiamo, ma non possiamo: sgretolare il perbenismo di facciata, i valori artificiali proclamati da questi personaggi che hanno più a cuore come appaiono in pubblico che l’integrità con se stessi tra le mura di casa. 

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Anche Gloria!, l’opera prima di Margherita Vicario (da scriversi rigorosamente con il punto esclamativo) parla di uno sfogo. Usa la musica come strumento di liberazione. Le note “non conformi”, ma appartenenti ai ritmi contemporanei che vengono suonate dalle ragazze dell’Istituto Sant’ignazio all’inizio del 1800 sono blasfeme per la chiesa del tempo. Sono però anche una musica che spezza le catene, che fa emergere la personalità di donne schiacciate.

Il film è molto preciso nelle coreografie e nel racconto. Sul finire, negli ultimi 10 minuti, perde ogni contegno. Diventa un film libero di essere assurdo, scomposto, ma al contempo felice e adrenalinico. Gloria! non ha insulti espliciti, ma le sue protagoniste fanno un “dito medio” in musica che convince: non tutto ciò che è ingiusto deve rimanere così, l’oppresso può rialzarsi, i nascosti possono uscire allo scoperto. Quando ciò accade, anche nella realtà, non viene mai fatto con discrezione, bensì con rumore, caos e scandalo per qualcuno.

Vorrebbe trovare “una spiegazione per tutto” Abel, il diciottenne ungherese del film di Gábor Reisz che fa scena muta all’esame di maturità. Indossa una coccarda tricolore, simbolo nazionalista. Il professore di storia gli chiede il perché di quella scelta d’abito. Il ragazzo, intimidito da un padre autoritario, giustifica la bocciatura come se fosse una vendetta del docente.

Una bugia che innesca un dibattito in tutta l’Ungheria tra conservatori e progressisti. Abel è al centro di una contesa politica che non gli appartiene, è schiacciato come può esserlo qualsiasi diciottenne innamorato e non ricambiato, con le incertezze del futuro e l’autostima sotto i piedi. Lui è un collettore della rabbia degli adulti, gente che vede solo le crepe della sua vita (il frigorifero che non va, il rubinetto che perde, i salari bassi, la fatica del lavoro, l’essere inascoltati) che si sente abbandonato e pertanto si radicalizza. Abel diventa il capro espiatorio.

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Come vanno a finire queste pentole a pressione di rabbia? Abel corre con gli amici nell’acqua, fugge da una tensione che sta per esplodere, schiva però la bomba, esce dal gioco degli adulti. La penna che scrive le lettere di Cattiverie a domicilio (non riveliamo chi sia) si allontana (non riveliamo come) dalla cittadina tutta apparenza niente sostanza. È una liberazione. Le ragazze di Gloria! sfogano la loro rabbia e l’energia vitale repressa ballando su note di gioia.

È il cinema della rabbia e dell’oppressione, che genera insulti, offese e provocazioni nei suoi personaggi, però in fondo libera anche chi guarda. Ci dà gli strumenti per identificare le nostre rabbie represse. Catarticamente ci fa ridere, ballare e ci fa venire voglia di correre. 

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi

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