Il 28 dicembre del 1985 fu la data in cui si iniziò a mettere in discussione l’idea pregressa di cosa sia la memoria. In quel giorno era infatti nato il cinema; immaginato da tutti come uno strumento per viaggiare stando fermi, si rivelò presto anche un dispositivo che aiuta a ricordare. La guerra, gli orrori del mondo, ma anche i momenti storici, i grandi discorsi e gli eventi sportivi sono fermati nel tempo dalla pellicola impressa dalla luce.

Oggi, nel mondo digitale, dove potenzialmente potremmo filmare e immagazzinare tutto, le immagini hanno perso il loro valore di autenticità. Nel mondo della post verità, della manipolazione, un filmato non può essere più considerato attendibile di per sé. Va verificato, letto e compreso nella sua parzialità. Così il cinema, invece di perdere la sua ragion d’essere rinunciando al (neo)realismo, è cambiato nelle mani di artisti e psicologi. Oggi i film d’arte non vogliono più raccontare la realtà filmandola in maniera dura e cruda. Per quello ci sono le dirette sui social network. Ben più interessante invece è tutto ciò che non è possibile vedere ad occhio nudo: l’interiorità della natura umana. Persino i documentari hanno iniziato ad emanciparsi dalla forma “scolastica” e informativa del racconto.

“Valzer con Bashir” di Ari Folman è un documentario animato del 2008 importantissimo per questo discorso. Fu una rivoluzione nel genere, perché metteva in crisi il concetto stesso di memoria. La confessione dell’ex soldato Israeliano relativa ai giorni del massacro di Sabra e Shatila, si confrontava con la perdita di alcuni pezzi di ricordo. Un’indagine a ritroso che si fa anche purificazione umana. I traumi e le emozioni che segnano a vita e ci portano talvolta a rimuovere o cambiare il senso di quello che abbiamo vissuto. È un meccanismo salvifico, necessario per convivere con il vissuto. Ma è proprio riconoscendo la soggettività che si può arrivare al vero. Perché se non c’è mai una sola verità, almeno si può raccontare con la massima precisione possibile una delle tante versioni.

Questa era l’idea sviluppata da Folman con il suo film. “Flee” continua su questa strada. Ci sembra di essere di fronte a una seduta psicanalitica condotta attraverso l’immagine mediata (e quindi resa accettabile anche a noi spettatori) tramite il disegno animato. Il soggetto di quest’indagine è Amin Nawabi (pseudonimo usato per proteggere il vero narratore), oggi professore universitario in Danimarca, in passato giovane migrante che ha vissuto sulla sua pelle gli orrori della guerra. Da piccolo scappò con la famiglia da Kabul, arrivò a Mosca dove sperimentò segregazione, razzismo, e la povertà. Ha affrontato il mare per cercare un porto sicuro in Europa. Amin oggi sta per sposarsi con il compagno Casper, ma qualcosa lo trattiene. Il regista – e suo amico d’infanzia – Jonas Poher Rasmussen decide di intervistarlo per scoprire il suo passato misterioso e aiutarlo ad andare avanti con la vita.

 

In “Flee” l’animazione diventa quindi un filtro essenziale per accedere alla verità interiore, per svelare i pesi che trascinano a fondo. Il disegno fa riemergere l’anima, proprio come per “Valzer con Bashir” questa era il modo per dare un colore ai ricordi. Potendo lavorare sull’immagine fotogramma per fotogramma entrambi i registi fanno in modo che il tratto pittorico si allontani dal reale per diventare rappresentazione dell’interiorità. La confusione è quindi grigia, con linee in movimento; l’infanzia è solare, definita e colorata; i personaggi dei film visti alla televisione strizzano l’occhio al protagonista, e così via.

Mantenendo la giusta distanza rispetto ai fatti messi in scena, entrambi i film insegnano a considerare lo sguardo come soggettivo, a non cercare di sapere solo cosa è accaduto, ma interessarsi più al perché. Cercano di rappresentare le persone non come corpi parlanti (un problema di molti documentari), ma come individui dotati di emozioni ancora prima che di fatti vissuti, subiti, che ancora si portano dietro e che ancora condizionano la loro esistenza. Dal passato ci si può emancipare scoprendo i colori della psiche. Solo accettandoli possiamo stimarci come persone finalmente intere.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi