“Quando un uomo esce da una stanza, si lascia alle spalle tutto quel che c’è dentro; una donna, invece, si porta appresso tutto quel che c’è avvenuto.” (Troppa felicità, Einaudi 2011) Questa famosa citazione di Alice Munro – la scrittrice canadese premio Nobel da cui il regista Pedro Almodóvar ha positivamente saccheggiato ispirazione per il suo ultimo film -, è il meraviglioso e doloroso refrain su cui si fonda tutta la messa in scena di Julieta. La donna è vista, realisticamente, come un condensato di uno spazio infinito dell’anima tra amore e dolore che si ripercuote anche nella logistica architettonica degli affetti. Anche se una donna trasloca, nulla è mai perduto nel suo cuore: ogni ferita è riapribile, ogni affetto è riparabile, ogni legame è rintracciabile. Il film spagnolo del regista di Parla con lei e Tutto su mia madre è senza dubbio di particolare interesse per le attività future delle sale della comunità e in generale merita molto di più di quello che sta raccogliendo nella magra stagione estiva. Tante le direzioni tematiche che si possono perlustrare: le diverse epoche esistenziali della donna, il dialogo al femminile tra le generazioni, la diversità uomo-donna nel far fronte al dolore della malattia e del lutto, il senso e l’utilizzo della verità, il legame genitoriale nell’adolescenza, il senso di colpa nell’esperienza spirituale. In ogni caso Madonna Julieta tra amore, generatività, depressione e autobiografia ci ricorda che una donna, pur cadendo e rialzandosi, non smette mai di dare la vita, di dare la luce.
Il matriarcato di Almodóvar
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