Qualche volta chiediamocelo anche in sala: cosa è rimasto della Verità? Anche perché se diventiamo pigri, le parole rischiano di perdere il loro sapore, diventano strane, anche se suscitano dei ricordi. E chiediamocelo stimolati da quei film, quelli buoni, che non hanno la pretesa di arrestare la Verità in un luogo, consapevoli che il vissuto di ogni essere umano è molto più complesso di ogni sua rappresentazione: la finzione, come il vissuto, non è la vita e l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza (citando Cassirer) non dev’essere tradita. Domandiamolo ai nostri spettatori e lasciamoci interpellare dal cinema quando è grande, forti della convinzione che quell’esperienza di visione condivisa, che attraversa gioie e dolori, non nasce per intrattenere o consolare, ma per rendere testimonianza ad una verità, quella umana, spesso assente nei discorsi. Anche questo modo, a partire dalla visione di un film come L’innocenza di Kore’eda Hirokazu, è un modo per non rendere il nostro sguardo pigro, tenere così gli occhi aperti su di noi e sul mondo che abitiamo.
A tal proposito è interessante notare come tutto nasca come un gioco tra i due protagonisti ma presto diventi una domanda che invita lo spettatore a fare i conti con un’indagine interiore, un sospetto, dei giudizi, una verità. «Chi è il mostro?» è l’interrogativo che innesca il racconto del film ma anche ciò che orienta e delimita la dimensione esistenziale del rapporto tra Minato e Eri, i due ragazzini in fuga dal mondo degli adulti, alle prese con l’esplosione improvvisa dei propri sentimenti, figure simboliche di un discorso che trascende l’ordine degli eventi.
L’innocenza, titolo che tradisce l’originale Monsters, è un film dell’anima perché prende sul serio l’essere umano con le sue contraddizioni, la sua complessità, i suoi desideri mentre guarda a quell’istante preciso in cui si affronta un passaggio decisivo, una trasformazione che fa diventare altro, che fa emergere. È un film che funziona un po’ come la vita: mai scontata, mai facile, che pensi ti stia conducendo verso una direzione ma poi ti porta altrove. Racconta una storia tenera e feroce, ma ne intreccia almeno altre due segnate dal vuoto, dal peso delle scelte, dai rimorsi, dalle paure, da occhi disorientati.
Inizia e prosegue come un horror, perché spinge in territori sconosciuti e tocca con mano la carne e le ossa, lo sporco e lo spregevole, poi però sembra un giallo, con qualcosa da seguire con attenzione, guardare da vicino e comprendere, risolvere in nome di una verità più grande del tutto; quando sembra definirsi cambia ulteriormente i propri connotati e assume le fattezze di una grande storia d’amore fatta di avvicinamenti, tentativi, sguardi che perforano le convenzioni. È un film dell’anima perché frantuma l’idea polverosa di una morale assoluta e chiusa, segue traiettorie inaspettate pur seguendo binari riconoscibili: un treno fantasma bellissimo diventa rifugio dei sogni e delle paure di Minato e Eri; un altro treno passa alle loro spalle e attraversa un ponte, a rappresentare il senso di un passaggio. D’altra parte è un film di movimenti, inseguimenti, luoghi da oltrepassare, soglie da varcare, ponti. Come sono le nostre sale, in un certo senso come sono sempre i film, quando sono capaci di coniugare mondi e punti di vista.
C’è anche tanta acqua, ma poche lacrime nonostante ci sia tanto dolore. Le tante luci che illuminano la notte di Suwa, piccola cittadina della provincia di Nagano in cui si svolge la vicenda pare vogliano rivelare i mostri che ci abitano. Però il titolo originale tende anche a sollevare una riflessione sulla sospensione del giudizio sull’altro, ribaltando le distanze, affermando e negando le immagini sempre alla ricerca della verità. L’innocenza è un film che racconta di una trasformazione, della rinascita ad una nuova vita, del contatto con un aldilà inteso come soglia da varcare, luogo in cui diventare per essere davvero umani, capaci di amare e di sentirsi amati.
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