Intervista ai due registi di Salvo e Sicilian ghost story: uno sguardo assolutamente originale, il loro, sorretto da un grande coraggio nel tradurlo in immagini. “Noi amiamo i generi”, dicono, “ma il cinema italiano ora è richiuso su se stesso, ridotto a film d’autore da un lato e a commedia commerciale dall’altro”. E aggiungono: “Il racconto realistico è solo un canone, come tutti gli altri. Quel che conta è la potenza dell’immagine, capace di costringere lo spettatore alla riflessione”
Nessuno mai ha raccontato la mafia, la Sicilia e la contemporaneità come loro. Nessuno mai ha raccontato l’isola non come metafora ma come terra sospesa tra incubo e sogno, terra di fantasmi e denuncia, favola e realismo, impegno civile e azzardi narrativi. Ma per Fabio Grassadonia e Antonio Piazza un nuovo, coraggioso cinema è possibile. I due registi, che si sono conosciuti a Torino durante gli studi e poi hanno cominciato a lavorare insieme come sceneggiatori, sono sbarcati lo scorso maggio sulla Croisette col bellissimo e sconvolgente Sicilian ghost story, dopo aver vinto nel 2013 col loro film d’esordio, Salvo, il Gran premio della Semaine de la critique e il Premio rivelazione, sempre al Festival di Cannes.
Insomma, dei veri autori, con uno sguardo originale e un enorme coraggio (cosa rarissima nel nostro cinema) nel tradurlo in immagini. Punti di riferimento all’interno di un nuovo cinema, capace di raccontare e denunciare oltre le schematizzazioni di genere con energiche bracciate trasversali, grazie alla propria cifra autoriale: “A un certo momento della nostra vita abbiamo pensato che non potevamo più di fare solo gli sceneggiatori”, dicono, “ma anche che non ne potevamo più di storie sulla criminalità, sulla mafia e sulle vittime raccontate sempre allo stesso modo. Ci siamo accorti che l’Italia è diventato un Paese di continue celebrazioni istituzionali cariche di retorica. Un Paese in cui non si fa che abusare di tutte le storie drammatiche che vi si consumano, appiattendole e rendendole tutte uguali, tutte poco toccanti. Per questo abbiamo invece scelto di capovolgere lo schema, partire da un’altra parte, costruire un impianto drammaturgico forte e lontano da tanto cinema e tv di mafia di oggi”.
Un impianto creato cavalcando e trafiggendo i generi con la libertà di chi segue solo il proprio faro?
Diciamo un modo di raccontare attraverso il genere, che si tratti di storia d’amore o di favola, di ghost story o di storia di mafia, tutto per evitare, appunto, l’etichetta del film di mafia appiccicata oggi a tanti prodotti convenzionali.
Quanto la Sicilia si prestava a questa scelta?
Molto. Qui potevamo raccontare di un ragazzino di tredici anni che scompare, di una compagna di classe innamorata di lui che è la sola a non rassegnarsi per la sua sparizione, a ribellarsi al silenzio e alla complicità che la circondano. È lei che, pur di ritrovarlo, scende nel mondo oscuro che lo ha inghiottito. E, come diceva Leonardo Sciascia, la Sicilia sta tutta dentro una dimensione fantastica e non ci si può star dentro senza fantasia e senza immaginazione. Siamo partiti da qui per cercare una collisione fra un piano di realtà e un piano fantastico e abbiamo usato elementi che da tempo avevamo davanti agli occhi: un fantasma e la colpa di un mondo che sopprime bambini. Elementi per una ghost story tutta siciliana che rimanda alla favola nera della realtà, a quegli anni ’90 in cui dopo ogni attentato o omicidio la reazione dei palermitani era quella di fingere di continuare a comportarsi come se si vivesse in una città normale. La nostra protagonista si oppone a tutto questo.
Ci sono degli autori che vi ispirano o vi hanno ispirato in questo percorso che è indiscutibilmente solo vostro?
Amiamo il nostro cinema civile del passato, che ha avuto esempi alti e importanti. Pensiamo a Francesco Rosi, a Salvatore Giuliano, a Le mani sulla città. Pensiamo a film fondamentali, ma che ormai non si fanno più. Ormai questo tipo di racconto della realtà è diventato maniera, un genere d’intrattenimento che mette a posto le coscienze ma che non ha davvero un effetto sulla coscienza civile di chi guarda. Noi abbiamo pensato che a questo punto bisognava invertire la rotta.
E lo avete fatto con la favola?
Sì, la favola è stata la nostra scelta. Abbiamo pensato molto a certi film di Guillermo Del Toro, come Il labirinto del fauno, in cui la favola si mischia alla realtà della guerra, ma anche a La morte corre sul fiume di Charles Laughton, in cui abbiamo sempre due bambini che fuggono dal male. La favola ci è sembrato l’unico modo possibile per raccontare del figlio del pentito sciolto nell’acido o altre mostruosità, ed è per noi un atto politico, una provocazione utile e necessaria. La Sicilia si presta al racconto, ma ultimamente tutto è stereotipo grazie a Montalbano e compagnia. Allora noi abbiamo pensato di raccontare la Sicilia in un modo del tutto diverso, scegliendo luoghi non riconoscibili, proprio perché ci serviva una Sicilia inedita.
Continua a leggere l’articolo di Silvia Di Paola su Filmcronache n.4/2017 (la registrazione è obbligatoria ma gratuita)