Non servono dialoghi, il cinema può essere fatto anche di sole immagini, di silenzi e di suoni reali. Il francese Damien Manivel e il giapponese Igarashi Kohei si sono recati nella regione più nevosa del Giappone, ad Aomori, e hanno incontrato un bambino di sei anni, Takara Kogawa, il cui padre è un pescatore; il bambino si sveglia ogni notte sentendo il padre andare al mercato. Quando Takara torna a casa da scuola il padre dorme ancora. Si vedono molto poco, tutto il film è volto a raccontare il sentimento di amore e distanza tra padre e figlio.
Una notte, nel silenzio della casa addormentata, il bambino fa un disegno e lo infila nella cartella. Andando a scuola ancora assonnato si allontana dal sentiero e vaga nella neve alla ricerca del padre. La cinepresa lo segue, come in un pedinaggio neorealista, e vaga con lui tra mezzi pubblici, strade innevate e luoghi di lavoro, sulle tracce del padre e del mercato del pesce. Il bimbo si perde e si ritrova in un flusso di vita e di assenza di dialoghi, perso nel “mondo dei grandi” guardandolo con gli occhi stupiti e ricchi di energia di un bambino. Le inquadrature raccontano con lentezza questo spazio e questo tempo, come se fossimo immersi dentro il mondo seplificato disegnato dal bambino sul foglio. Fare di questa idea iniziale un lungometraggio è forse stato un’azzardo da parte dei due registi di La nuit où j’ai nagé. Il film si dilunga e l’idea iniziale si perde, forse blindarlo in un tempo più corto avrebbe aumentato l’effetto realista e garantito più efficacia a questa pellicola che a tratti assume la forma dilatata di certa video-arte.