Campo: dei bambini osservano uno spettacolo di burattini. L’attesa è riempita da un brivido. Le luci si stanno spegnendo e il telo sta per aprirsi. C’è po’ di curiosità per quell’oggetto così antico che sembra non appartenergli più. Così artigianale, che suscita più curiosità del più nuovo ritrovato tecnologico. Controcampo: “il padre” dà istruzioni ai figli Louis, Léna e Martha per provare qualche nuova sfumatura nelle battute delle marionette. Campo: è una fiaba di principesse, inganni e tradimenti. Le star sono personaggi di legno. Controcampo: il meccanismo. Si svela l’arte scenica di un vecchio maestro e della sua discendenza. Capiamo che sono una famiglia, che si vogliono bene, perché per dare vita ai loro personaggi a mezzo busto sono costretti a una prossimità che sarebbe imbarazzante per chiunque altro. I loro corpi si toccano, si intrecciano, si abbracciano. Durante l’esecuzione gli interpreti si parlano. Le frasi sono quelle della sceneggiatura, con gli occhi si dicono altro. È un’intimità preservata da un piccolo muro sottile che separa il regno della realtà da quello della fantasia. Uno schermo bucato.

Il grande carro è la storia di una famiglia di burattinai che, alla morte del padre, deve trovare un modo per tenere in vita la sua arte (e quindi onorare il suo ricordo). Ma è anche un autoritratto della famiglia Garrel. Philippe, il regista, che con il film ha vinto l’Orso d’argento per la regia a Berlino, trova il suo specchio nell’interpretazione di un intenso Aurélien Recoing. I parallelismi sono espliciti. Louis (Garrel) interpreta Louis. Léna è Léna. Esther invece cambia il nome in Martha. Un film deve nascere da una necessità. Il grande carro è animato da una preoccupazione estremamente personale, eppure comprensibile anche allo spettatore che non viene da una famiglia d’arte. Come continuare? Perché continuare?

Philippe Garrel annacqua un po’ la riflessione nella seconda parte, aggiungendo dei tira e molla amorosi che poco aggiungono a quanto fatto nella prima, straordinaria, ora. De Il grande carro resta però indelebile il suo “mindscape”, per citare la nostra rubrica, un paesaggio di anime che conducono una vita lontana il più possibile da quella comune. La famiglia di artisti si percepisce come custode di una fiamma antica. Un’arte che esisteva prima di loro e che deve continuare ad esserci anche dopo. Che fare con la baracca e i burattini? Seguire il flusso del tempo che li sta mettendo ai margini della piramide delle necessità pedagogiche (è più importante costruire un fitto calendario di impegni ai bambini che dedicargli qualche momento di esercizio della fantasia), oppure remare ostinatamente in direzione contraria, magari mettendo in pericolo le proprie aspirazioni personali?

Il grande carro appartiene al genere dei film con un’eredità al centro. Solo che questa volta i personaggi, al posto di contendersela, ne sentono tutto il peso. Le loro figure, abbiamo detto, richiamano le dinamiche vere della famiglia Garrel che li interpreta e per questo hanno una spontaneità rara. Però questa storia va oltre la questione privata. Loro ricordano anche altre figure che ci toccano da vicino.

Per scoprirlo ritorniamo un attimo su ciò che sono e su come sono messi in scena: artigiani, che partono dalla bottega, la loro casa. Solo lì sono in grado di creare pezzi unici. Un burattino “ferito” non è infatti sostituibile. Sono nascosti al pubblico che li vede a inizio e fine spettacolo, ma se ne dimentica, spariscono dietro le storie che mettono in scena sul loro palco. Sono i custodi di una tradizione, ma anche una presenza nell’oggi che aggrega le persone e le sincronizza in un immaginario collettivo.

Avete capito perché Il grande carro è un film per le sale della comunità, soprattutto per quelle che hanno anche un palcoscenico teatrale, e per gli esercenti che vogliono condividere con il proprio pubblico la nostra missione? Perché parlando di loro… racconta noi.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi