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LE DONNE ALLO SPECCHIO NEI FILM ITALIANI
Le registe, vere protagoniste della Festa del Cinema di Roma

Prima Valeria Bruni Tedeschi (da È più facile per un cammello a Le amandiers), Laura Morante (Ciliegine e Assolo), Valeria Golino (Miele ed Euphoria), Michela Cescon (Occhiblu). Poi, più di recente, Jasmine Trinca (Marcel!), Claudia Gerini (Tapirùlant), Pilar Fogliati (Romantiche), Micaela Ramazzotti (Felicità). Adesso, alla Festa del cinema di Roma, Kasia Smutniak (Mur), Paola Cortellesi (C’è ancora domani), Margherita Buy (Volare). Tutte attrici passate dietro la macchina da presa, registe esordienti intenzionate, con le loro storie personali, intense e appassionate, a spostare l’immaginario cinematografico, prettamente maschile, in territori più sensibili e meno stereotipati. Non sono sole, a dire il vero. Anche non pochi colleghi maschi, infatti, negli ultimi mesi stanno facendo confluire l’esperienza attoriale in quella registica (Claudio Bisio, Michele Riondino, a breve Luca Zingaretti), ma il passaggio, in questo caso, è più consueto e, per così dire, assimilato. Le donne, però, appaiono ancora più determinate degli uomini a far sentire la loro voce. Raccontando una realtà ben precisa, osservata direttamente dai loro occhi e filtrata dai loro sguardi.

Ne abbiamo avuto pieno riscontro, per l’appunto, alla Festa del cinema di Roma, a cominciare dal titolo scelto per inaugurare la 18ª edizione della rassegna capitolina, C’è ancora domani, diretto, scritto (con Giulia Calenda e Furio Andreotti) e interpretato da Paola Cortellesi. Un’opera prima collocata a Roma, nell’immediato dopoguerra, nella quale la donna di cui la Cortellesi veste i panni è una madre di tre figli divisa tra le faccende di casa e piccoli lavoretti, sposata con un marito possessivo e violento, badante, a tutti gli effetti, del suocero livoroso che vive con loro: il prototipo di tante donne straordinarie nel loro ordinario anonimato, salde nella loro abnegazione, resilienti nel piegarsi ai doveri coniugali e alle necessità famigliari. Un modello femminile che C’è ancora domani mette in discussione, orientando le vicende alla presa di coscienza, allo sganciamento da ruoli predefiniti e da una sudditanza maschile retaggio di un patriarcato atavico e autoritario. Girato in un suggestivo bianco e nero, scandito da canzoni d’epoca che fanno da filo conduttore al racconto e da sonorità moderne che attualizzano idealmente le vicende, il lungometraggio della Cortellesi imbocca strade narrative multiple e si infila in altrettanti generi cinematografici: il film neorealista, la commedia sociale e di costume, il film d’impegno civile, persino il musical. Direzioni di marcia che talvolta sbandano, nei repentini cambi di tono, ma che trovano adeguata compensazione nella genuinità di scrittura e di recitazione, palesando una complicità feconda tra la regista-attrice e tutti gli altri interpreti, quelli principali (Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Giorgio Colangeli, Vinicio Marchioni) e le figure di contorno. Espressioni nitide di un’umanità ruspante, vivace e vitale, che C‘è ancora domani riassume in un ritratto popolare e popolano, leggero e profondo. Impegnato, sotto la sua crosta superficiale, e chiuso da un finale originale e intenso.

Se il film della Cortellesi, riportando lo spettatore indietro nel tempo, attinge ai ricordi personali di bisnonna, nonna e madre della regista e attrice romana, l’esordio dietro la macchina da presa di Margherita Buy pesca invece direttamente dal proprio mestiere e dalle proprie, personali fobie. La paura dei viaggi aerei è infatti il centro narrativo di Volare, in cui un’attrice di cinema e serie tv sprofonda in uno stallo esistenziale e professionale dal quale cerca di uscire attraverso un ‘corso di consapevolezza’ all’aeroporto di Fiumicino, un passo decisivo per poter accompagnare la figlia in volo per la California, dove la ragazza intende andare a studiare. Anche autrice della sceneggiatura (come la Cortellesi) insieme a Doriana Leondeff e Antonio Leotti, la Buy declina in forma di commedia ansie risapute e idiosincrasie consuete, in un registro espressivo di evidente stampo morettiano. La buffa inadeguatezza che traspare da Volare resta però alquanto ombelicale, non essendo sufficiente, da sola, a sollevare il film dal suo recinto di ‘autoritratto con dedica’, bizzarro e volutamente maldestro. I sorrisi, in effetti, evaporano rapidamente, la soffice leggerezza di situazioni e atmosfere scivola presto nell’evanescenza: anziché graffiarsi con decisione, la Buy, qui, tutt’al più si stropiccia bonariamente, senza scendere nel tragicomico come forse vorrebbe. Peccato, anche perché alcuni dialoghi riescono talvolta a generare un certo brio, il rapporto conflittuale con l’agente che filtra copioni e proposte di lavoro funziona, seppure a intermittenza, e il campionario di ‘fifoni’ che partecipa al corso di ‘educazione aerea’ è ben assortito.

Niente affatto esordiente, come Cortellesi e Buy, Roberta Torre è però, fin dai tempi di Angela, attenta esploratrice dell’universo femminile. Nel suo nuovo lungometraggio Alba Rohrwacher è una donna, di nome Monica, la cui mente sta cominciando ad offuscarsi, sostenuta teneramente, in questo suo difficile frangente psicologico ed esistenziale, dal marito (interpretato da Filippo Timi). Rispecchiandosi nel volto, nei gesti, nelle parole e negli abiti di Monica Vitti, osservati nelle sequenze di film come La notte, L’eclisse, Teresa la ladra, Polvere di stelle e replicati nella dimensione privata, la donna sovrappone la propria immagine a quella della celebre attrice, in un gioco continuo di rimandi e rinvii, allusioni e travestimenti. Sincopato, irrisolto e onirico, percorso da una vena carsica di crepuscolare nostalgia e intessuto di sonorità musicali evocative, assai pertinenti con il ‘clima’ emotivo generale, Mi fanno male i capelli (titolo non a caso prelevato da una famosa battuta di Deserto rosso) è una sinfonia dalla partitura dolente, un trattato emozionante di memoria cinematografica, una sofferta riflessione in immagini sulla malattia che opacizza i ricordi e offende la ragione, un itinerario sorprendente sulla confluenza tra persona e personaggio: sono una delicatezza ammirevole e un pudore commovente a sostenere il film della Torre, omaggio originale e, dunque, prezioso a Monica Vitti. Dentro la realtà e fuori dalla finzione (e viceversa), Mi fanno male i capelli rivendica così, senza alcuna enfasi, con una forza tutta interiore, la funzione ‘salvifica’ della settima arte nel dare forma alla quotidianità, in un continuo, instancabile vortice di riverberi.

L’ultimo, multiforme ritratto di donna proposto dai lungometraggi italiani alla Festa del cinema di Roma lo possiamo ritrovare in Te l’avevo detto di Ginevra Elkann, anch’essa sceneggiatrice (con Chiara Barzini e Ilaria Bernardini) oltre che regista. Film ‘spugnoso’, rarefatto, ambizioso ma non riuscito, nonostante premesse intriganti, Te l’avevo detto immerge i tanti personaggi di cui si compone, interpretati da un cast di prim’ordine (Valeria Bruni Tedeschi, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Danny Huston, Greta Scacchi), in uno scenario distopico che sembra viaggiare in parallelo con Siccità di Virzì: un inverno romano con temperature estive, un’ondata di calore insopportabile che fa da causa, e contemporaneamente da effetto, a relazioni deteriorate, ansiogene e nevrotiche. Il girotondo grottesco che fa salire e scendere sulla giostra del racconto una fanatica religiosa, madre di una ragazza bulimica che fa da badante ad un’anziana nobildonna, una pornostar in declino, devastata dalla chirurgia estetica e senza un euro in tasca, un‘attrice alcolista, con figlio affidato all’ex marito, e un sacerdote italo-americano, ex eroinomane, tenta di dare forma all’infermo in terra di anime perse nel caldo soffocante, in preda a dipendenze croniche insanabili. Ma pur sorretto dalla scelta coraggiosa di estremizzare ogni rapporto, ogni dialogo, ogni incrocio, famigliare o interpersonale, ‘costringendo’ ciascun protagonista ad ‘espiare’ palesemente le proprie colpe, il film della Elkann mostra fin da subito un’artificiosità che nuoce sia ai personaggi sia ai loro scambi verbali sia alle loro stesse azioni. Risultando, così, esasperante nella sua reiterata esasperazione.

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.