Il documentario di Paola Piacenza è dedicato alla professione di Domenico Quirico, giornalista inviato del quotidiano «La Stampa» rapito in Siria l’8 aprile 2013 e liberato 152 giorni dopo.
Il racconto in prima persona di Quirico ne costituisce la parte dominante e si intreccia con immagini di repertorio e con alcune riprese video del ritorno in Siria del reporter, che dopo essere rientrato in Italia ha sentito la necessità di ripercorrere i luoghi della prigionia per poter «trasformare il ricordo in racconto». Risuonano come una sorta di imperativo categorico le sue parole: «È nel tornare lì che il cerchio si compie».
Ciò che Quirico avverte è un legame diretto tra il perpetuo dolore che accade nel mondo e ciò che si scrive, nonché il bisogno della “presenza” connaturato al suo mestiere, il mestiere di chi compie uno «sorta di lunghissimo viaggio nel male».
Testimone di alcuni degli eventi più drammatici della contemporaneità, Quirico negli ultimi anni ha raccontato, tra gli altri, il Sudan, il Darfur, il Ruanda, le primavere arabe dalla Tunisia all’Egitto.
Nell’intervista realizzata a più riprese dalla collega Piacenza, il reporter descrive i 152 giorni di prigionia in Siria come uno «spazio di tempo vuoto», di cui ricorda con lucidità alcuni dettagli: nitida ad esempio è l’immagine delle manciate di proiettili scambiati tra i jihadisti come fossero caramelle.
Ma ciò che emerge potentemente dal film della Piacenza è forse, più di tutto, la volontà di ragionare sul ruolo del giornalista, qui descritto da Quirico come colui che scende nel pozzo colmo di dolore con la speranza di portare qualcosa in superficie.