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PER AMORE DI UNA DONNA (Guido Chiesa)
La madre dimenticata

Anni ’30. Un villaggio di coloni ebrei in Palestina, l’atmosfera di un mondo nuovo. Il contadino Moshe, rimasto vedovo con due bambini, chiama a dargli una mano una giovane donna, Yehudit, che sconvolge la sua vita e quella di altri due uomini, il sognatore Yaakov e il commerciante Globerman. 

Anni ’70. Esther, un’inquieta quarantenne americana, alla morte della madre riceve una lettera: deve trovare una donna vissuta negli anni ’30 in Palestina che nasconde un segreto sulla sua vita. Arrivata in Israele, Esther è aiutata nella sua ricerca da Zayde, un professore dal passato ingombrante. Intrecciando i fili che legano passato e presente, Esther e Zayde scopriranno una sorprendente verità sulle proprie vite.

Ha le caratteristiche di un ritorno alle origini il dodicesimo lungometraggio di finzione di Guido Chiesa, che con Per amore di una donna mette in stand by l’incursione nella commedia che ne ha caratterizzato l’ultimo quindicennio dell’ultra trentennale attività da regista, per tornare a comporre un’opera di grande respiro, nella quale la dimensione esistenziale è sostenuta da un background politico, la composizione di un articolato dalla meditazione sul presente.

Un ritorno alle origini che tuttavia non riguarda solo i temi e l’orizzonte discorsivo, ma anche l’apparato formale, nel quale si registrano tracce di quello sperimentalismo di cui erano intrise le sue opere degli anni ’90 e 2000. Attitudine sperimentale identificabile sin dall’orizzonte del progetto, che infatti è un vero e proprio deragliamento non solo dagli abituali binari nei quali (si) è ingabbiata la Colorado Film che — insieme a Vivo Film e Rai Cinema — lo produce, ma anche da quelli di quasi tutto il cinema prodotto in Italia negli ultimi anni. E declinata in un’opera in doppia lingua (inglese ed ebraico), caratterizzata dall’inconsueta quanto efficace composizione di un cast internazionale di attori poco conosciuti e dall’esplorazione di temi, territori e identità extraitaliani. Così come sperimentale è anche la sceneggiatura — realizzata dallo stesso regista torinese insieme a Nicoletta Micheli, che così firmano la loro quinta collaborazione —, contraddistinta da un curioso métissage di adattamento e storia originale, laddove tutta la parte della vicenda ambientata tra gli anni ’30 e ’40 è ispirata a The Loves of Judith, il romanzo dello scrittore israeliano Meir Shalev, mentre la parte ambientata negli anni ’70 è frutto dell’invenzione degli autori. Un mescolamento che caratterizza anche le epoche attraverso le quali si articola la narrazione, così come i generi cui ricorre, i registri che adotta, le tonalità e le saturazioni dalle quali è informato, e che arriva a investire lo stesso stile di Chiesa che, con il consistente contributo del montaggio di Luca Gasparini, è alla continua ricerca di soluzioni espressive per frantumare la narrazione, farla attraversare da ischemie non-lineari hanno il compito di spostarne l’orizzonte, dilatarne il senso. Così da rendere la curiosa storia di una minuscola comunità rurale il nucleo di una riflessione universale sulla Memoria e sulla sua necessità.

Regia: Guido Chiesa

Con: Mili Avital (Esther), Ana Ularu (Yehudit), Ori Pfeffer (Zayde), Alban Ukaj (Moshe), Marc Rissmann (Yaakov), Serhii Kysil (Globerman)

Italia 2025

Durata: 117’

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).