Sergej Loznitsa era già stato al Lido con Austerlitz, che raccontava la spettacolarizzazione del Lager nella contemporaneità. Aveva già fatto capire che le concessioni allo spettatore sono pochissime: il suo cinema rappresenta intollerabili paradossi morali con tempi estenuati e quasi immobili, che costringono alla riflessione.
Col Processo, il regista guarda invece alla dittatura staliniana, con un’operazione altrettanto estrema della precedente ma giocata su principi diversi. Al centro c’è infatti un processo reale e documentatissimo del 1930 contro dei presunti cospiratori contro il regime sovietico. Gli imputati si dichiarano colpevoli e ricostruiscono in lunghissime dissertazioni le loro azioni criminali e la complicità del governo francese in quello che viene definito il Partito Industriale. Le riprese sono in bianco e nero, sporche: filmati d’archivio restaurati che conservano l’aura del tempo. I testi sono gli originali e vengono ripercorsi passo passo, senza sconti, senza sintesi, spostando lo spettatore – nel tempo degli smartphone e della velocità – in quell’epoca sciagurata, con quella lentezza, quella retorica, quel meccanismo diabolico. Perché proprio di questo si tratta, di un meccanismo diabolico, come viene svelato soltanto alla fine. Ma per capire il film è bene pur dirlo da subito, a costo di rovinare la sorpresa: questo fantomatico e sabotatore Partito Industriale non è mai esistito, è un prodotto della propaganda staliniana, con tanto di processo reale e condanne reali, benché diverse da quelle pronunciate dai giudici. È una situazione kafkiana, quella di tutti i personaggi coinvolti, quella del pubblico che segue i processi con partecipazione sostenendo con foga e entusiasmo la rivoluzione proletaria, e in fondo anche la nostra, incastrati nella macchina della spettacolarizzazione del male.