Innamorarsi cambia l’anima. Lo sappiamo quando ne facciamo esperienza diretta. Innamorarsi cambia la faccia. Lo sanno quelli che ci osservano. All’inizio di “I figli degli altri” incontriamo Rachel, una donna innamorata. Sicuramente lo è di di Alì ma, lo capiremo più avanti, anche della vita e della sua missione di insegnante. Lei è diversa dagli altri: ha sempre il sorriso, anche quando compie azioni quotidiane. Anche quando è stanca dopo il lavoro. Il suo corpo è inquieto, costantemente attratto da qualcosa, come se godesse nell’attesa di un dolce incontro. La dolce ansia di un piacere rimandato. 

La regista Rebecca Zlotowski “gioca in casa”. L’ispirazione è personalissima: la relazione tra Alì e la ragazza sono simili a quello che è stato il suo rapporto con il regista Jacques Audiard (di cui vi abbiamo già raccontato il bellissimo Parigi 13 Arr.). La donna, non più tanto giovane, sta arrivando alla fine della sua età fertile, come le dice il ginecologo Frederick Wiseman (interpretato dall’omonimo regista di documentari). Rachel si butta nella nuova relazione con anima e corpo, convinta di essere in una storia d’amore diversa da tutte le altre. Solo che lei, nella coppia, è la “terza incomoda”. Alì ha infatti una figlia, di nome Leila, avuta da un’altra donna. Un pezzo del suo cuore è per lei, così come gran parte del tempo della giornata.

La bambina non è però rappresentata come oggetto di tormento. Nella realtà dei sentimenti che è espressa ne “I figli degli altri”, Leila è un personaggio catalizzatore che relativizza tutte le imposizioni della società delle famiglie convenzionali. Lei rompe la concezione adolescente ed esclusiva del volersi bene e dimostra che esiste una forza che fa crollare i legami di sangue e ne crea altri ancora più raffinati. Che si possa voler bene ai figli degli altri come se fossero i propri non è mai in questione. Quello che interessa di più a Zlotowski è l’effetto che questo sentimento ha. L’amore che cambia il nostro corpo rende così anche più simili la donna e la bambina. Assomigliarsi come madre e figlia senza condividere legami di sangue: l’immagine cinematografica perfetta per riassumere quanto gli incontri ci cambino, quanto quello che siamo si forma a partire dagli altri.

Rachel desidera però la maternità. Non sa neanche lei il perché, ha sempre rimandato questo momento fino a quando non è quasi troppo tardi. La maturità è però scoprire che la vita non si controlla, finisce l’illusione giovanile di poter ritmare il tempo della propria esistenza. Così “I figli degli altri” riflette su cosa significhi essere genitore nella sua accezione più alta del termine. Diventa così un film di legami fisici e affettivi, che non sono il trionfo di una genitorialità fisica, bensì di quella spirituale che si verifica quando si lascia un segno indelebile in chi si incontra nel proprio cammino.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi