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SEMBRA MIO FIGLIO (Costanza Quatriglio)
Viaggio alla ricerca dell'identità e dignità perdute

Ismail e Hassan sono fratelli di etnia Hazara e vivono dalla tenera età in Italia dove hanno trovato rifugio come molti perseguitati loro connazionali. Si ritengono orfani da entrambi i genitori finché scoprono la propria madre ancora viva, ora risposata in Afghanistan con un uomo che la sovrasta e non le permette di parlare telefonicamente con i figli. O quanto meno, di esprimere loro i propri reali desideri e sentimenti. Hassan si lascia coinvolgere dalle convinzioni del patrigno mentre Ismail resta fedele ai principi di una libertà e dignità a fatica conquistate, finché il destino lo porta nei territori natii spinto da domande probabilmente prive di risposte..

Nasce da lunghi anni di scrittura e riflessioni il secondo lungometraggio di finzione di Costanza Quatriglio, la cineasta italiana che meglio di chiunque altra riesce con sapienza e sensibilità a mescolare il passato, il presente (e i futuri possibili) attraverso la contaminazione del cinema del reale con quello del verosimile. Sembra mio figlio appare esattamente come la quintessenza dello sguardo di Quatriglio, che sembra aver raggiunto con quest’opera una perfetta quanto personale mediazione nell’uso del dispositivo cinematografico. Il costo, a monte, è evidente: mettere la vita vera – propria e dei suoi protagonisti – a servizio di un’arte che sappia “muovere” e non “promuovere” gesti e coscienze. Letto attraverso tale prospettiva, tutto è coerente nel testo che vede al centro un reale giovane Hazara – Basir Ahang, poeta, giornalista, attivista esule in Italia – nei panni del protagonista Ismail: il suo volto e il suo corpo, persino la sua postura, parlano e “vivono” prima della sua voce, un pro-filmico prepotente eppure mai invadente. Come lui anche gli altri personaggi (che sono sempre “persone” nel cinema di Quatriglio) a partire dall’anziana signora madre di Ismail. Dalla composizione dei diari che la regista ha scritto grazie ai racconti dell’ex bimbo (ormai giovane e amico) Jan serviti a formulare la base reale a cui ispirare questa storia fino alla “composizione” delle inquadrature dai tagli sempre funzionali al rispetto dei (s)oggetti rappresentati: in Sembra mio figlio ogni dettaglio concorre alla restituzione “dal di dentro” di un dramma esistenziale che trova certamente nella etnia massacrata degli Hazara in suo hic et nunc ma la sua universalità in quello di ogni perseguitato, a prescindere da “quegli occhi orientali che non puoi nascondere” . Se ad essere principalmente utilizzata è la figura del viaggio nella duplice valenza fisica e psicologica per confluire in quella spirituale (resa visibile dalla bella sequenza delle preghiere degli Hazara) rientrano nell’economia drammaturgica del testo anche elementi dal melò (l’amore sfiorato fra Ismail e la giovane croata interpretata da Tihana Lazović), dal Bildungsroman, e naturalmente dal dramma di denuncia. Sembra mio figlio ha il carattere di un’opera che profuma di Verità sulla ferma e appassionata volontà di restituire a chi l’ha persa la dovuta dignità umana, sociale e civile.

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Sull'autore

Anna Maria Pasetti

Anna Maria Pasetti Milanese, saggista, film programmer e critica cinematografica, collabora con Il Fatto Quotidiano e altre testate. Laureata in lingue con tesi in Semiotica del cinema all’Università Cattolica ha conseguito un MA in Film Studies al Birkbeck College (University of London). Dal 2013 al 2015 ha selezionato per la Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Si occupa in particolare di “sguardi al femminile” e di cinema & cultura britannici per cui ha fondato l'associazione culturale Red Shoes. . Ha vinto il Premio Claudio G. Fava come Miglior Critico Cinematografico su quotidiani del 2020 nell’ambito del Festival Adelio Ferrero Cinema e Critica di Alessandria.