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SOLA AL MIO MATRIMONIO (Marta Bergman)
La voglia di vivere di una ragazza-madre

Pamela, giovane rom irrequieta e insofferente, vive con la nonna e la sua bambina in un piccolo villaggio della Romania, ma sogna la libertà, lontano dal mondo di cui fa parte, e nuovi orizzonti da esplorare. Rompendo con le tradizioni che la soffocano, scappa con pochi soldi in tasca, qualche parola di francese in testa e, nei desideri, la speranza di un matrimonio in Belgio per cambiare il suo destino e quello di sua figlia…

Un ritratto sincero, ruvido, non omologato di una ragazza-madre e del suo desiderio di una ‘normalità’ tanto ricercata quanto temuta. Potremmo sintetizzarlo così il debutto di Marta Bergman nel lungometraggio di finzione, un film ‘epidermico’ per la sensibilità a fior di pelle che emana la sua eccellente protagonista (Alina Serban) e, allo stesso tempo, un’opera di stampo ‘interiore’ per la sottigliezza psicologica e il riverbero sociale che porta con sé nello sviluppo del racconto. Sola al mio matrimonio, pur in una dimensione scenica artificiale, riflette tutta quell’attenzione alla realtà che la regista, romena di origine ma belga di formazione, ha riversato nei suoi documentari sulle comunità rom. Con la sua indomita vivacità, le sue fragilità post-adolescenziali, il suo umorismo fuori dagli schemi, Pamela, richiusa in un abito a fiori gialli, la borsa al braccio e una determinazione non comune, è il punto di raccordo, sullo schermo, delle complesse sfumature di un’etnia nella quale convivono volontà di sopravvivenza, estraneità permanente e senso di sconfitta. Un mix personalissimo di audacia giovanile, voglia di vivere e bisogno di imparare, ma anche scollamento dalle proprie radici, non riconoscibilità nell’altro e rassegnazione al fallimento.

E’ lungo queste coordinate umane che si snodano gli incroci narrativi di Sola al mio matrimonio, senza trovare forse un’adeguata sintesi ed eccedendo in stasi esistenziali, in alcuni frangenti, perdendo dunque di mordente. Ma l’istintività e l’esuberanza della protagonista, anche dopo alcuni passaggi a vuoto (soprattutto nella lunga osservazione della convivenza con il compassato, inerte Bruno, conosciuto attraverso un’agenzia matrimoniale su Internet), riescono a sopperire alle carenze dello script e a riaccendere l’interesse dello spettatore, che si fa partecipe del destino di questa ragazza in fuga da se stessa, adottandone il punto di vista su una quotidianità quasi inconciliabile per la diversità della lingua, la difformità delle relazioni, la tensione alle proprie aspirazioni. Non adagiandosi nella denuncia sociale, né sublimandosi nel rapporto di coppia, il film della Bergman, ispirato certamente dal cinema dei fratelli Dardenne, respira così di un ‘ossigeno’ atipico. Talvolta persin troppo rarefatto, ma indubbiamente salutare.

SOLA AL MIO MATRIMONIO
Regia: Marta Bergman
Nazionalità:Belgio, 2018
Durata: 122 minuti
Interpreti: Alina Șerban, Tom Vermeir, Viorica Tudor, Marian Șamu

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.