Venezia 80 Filmcronache

THE FEATHERWEIGHT (Robert Kolodny)
Un campione del pugilato che avrebbe meritato di più

Guglielmo Papaleo, noto come Willie Pep, fu un campione del mondo dei pesi piuma di origini italo-americane. Di 241 incontri ne vinse ben 229, in una carriera sportiva di vent’anni. Nel film The Featherweight, per la regia di Robert Kolodny, il pugile è interpretato da James Madio. Ancora oggi Pep è il campione di pugilato con il maggior numero di vittorie conseguite.

La pellicola, ambientata nella metà degli anni Sessanta, quando Pep ha superati i quarant’anni, pone l’attenzione sul campione in declino, sull’uomo fragile con una vita personale in frantumi. Il figlio ha problemi di tossicodipendenza, la giovane e graziosa moglie non si ambienta in famiglia e vorrebbe fare l’attrice, i soldi sono finiti e Pep non trova lavoro. Per reagire decide di tornare sul ring, seppur troppo anziano. A questo punto una troupe di documentaristi entra nella sua vita. L’intento del regista sarebbe stato quello di “sovvertire le convenzioni dei classici film sul pugilato per creare qualcosa di più radicato in un linguaggio di verità, compassione e fallibile mortalità. […] Un mondo autentico, che non fosse l’imitazione di qualcos’altro, ma pienamente radicato nel reale.”

Purtroppo, per questa opera prima, è proprio nella forma scelta dal regista che si evidenzia la maggiore criticità. L’ostentazione della finzione cinematografica è un’arma pericolosa che può portare come esito l’innalzamento della qualità autoriale di una pellicola, oppure indebolire la narrazione. Robert Kolodny lavora su una biografia molto interessante, scegliendo di esporre i fatti secondo un principio di realismo, cercando di realizzare un mockumentary serio. L’esito, purtroppo, è stridente. Gli attori sono ripresi da una finta troupe che non vediamo, munita di una cinepresa a mano e di un microfono direzionale. L’inquadratura è spesso mossa per dare l’idea del reportage e del filmato grezzo. Questo effetto, senza altre imperfezioni del cinema degli anni Sessanta, dopo poche inquadrature porta lo spettatore ad annoiarsi. L’esposizione della finzione è costantemente dichiarata. La troupe è finta, gli attori recitano un testi scritto con dialoghi che sono necessari a portare avanti la storia, nulla è lasciato alla spontaneità delle situazioni. Questo è il cinema, ma, come sappiamo, finzione aggiunta a finzione non genera realtà. La sospensione dell’incredulità è tradita senza portare un valore estetico nuovo o mostrare una autentica sperimentazione. Si genera nello spettatore una estraniazione non necessaria all’economia filmica. Sarebbe stato forse più efficace narrare questa bella storia di sport con un linguaggio più asciutto, meno stucchevole. Una bella occasione perduta.

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Sull'autore

Simone Agnetti

Simone E. Agnetti, Brescia 1979, è Laureato con una tesi sul Cinema di Famiglia all’Università Cattolica di Brescia, è animatore culturale e organizzatore di eventi, collabora con ANCCI e ACEC, promuove iniziative artistiche, storiche, culturali e cinematografiche.