Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico sta maturando i primi frutti
e le viti in fiore spandono profumo.
Àlzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto!
(Ct 2, 11-13)

 

 

L’uomo è relazione. E non, semplicemente, ha delle relazioni. Ed è bello credere che la relazione sia la dimensione originaria e costitutiva della persona libera, il suo senso e quindi il suo fine, la comunione.

Opportunità di libertà e verità, ne Il frutto della tarda estate di Erige Sehiri, regista franco-tunisina qui al suo primo lungometraggio di finzione, la relazione è luogo desiderato e temuto. Il film si nutre di un’atmosfera calda e sensuale, ribelle e inquieta, che evoca uno spirito fatto di luce e sorrisi in cui si incastrano rivelazioni, slanci, parole e, soprattutto, mani. Erige Sehiri racconta una vicenda di donne e lavoro, amore e libertà a cominciare dalle mani delle sue protagoniste: forti, nervose, gentili, morbide e affaticate. E nelle pieghe di queste mani Sehiri dà volto e visibilità a donne lavoratrici che rimangono nell’ombra, invisibili, robuste e delicate un po’ come le piante da cui colgono i frutti con meticolosa cura durante una genuina e dura quotidianità. Piante che avvolgono, che offrono riparo dal caldo ma pure che possono essere soffocanti, tagliare la speranza di credere in una vita diversa, di immaginare un tempo migliore. È un film di mani ma anche di occhi. Sembrano gemme, delizie, stelle che sprigionano energia vitale, che desiderano aria, amore, felicità, che tradiscono un grido muto causato dalla mancanza di opportunità e dalla la fatica di resistere ad un ambiente familiare conservatore.

Un film il cui titolo sembra provenire direttamente dal cuore di Ozu, calmo sui particolari, attento alle piccole cose, al tempo, alla voce, alle sfumature, all’intensità, fatto di carezze e lacrime, intrighi e sogni, dignità e risolutezza; un film immerso in un tempo propizio al raccolto, alla fine dell’estate, in un frutteto nel Nord-Ovest della Tunisia. Una storia che si apre all’alba e si chiude al tramonto, dentro la terra, nel sudore del lavoro e nel sapore del cibo, orchestrata come un racconto esemplare in bilico tra mito ancestrale e realismo poetico, aspra denuncia sociale e riflessione politica. Ascoltate la canzone dei titoli di testa: è la versione tunisina cantata da Yesser Jradi durante la primavera araba del 2011 e ispirata all’inno di resistenza del 1969 contro il franchismo scritto da Lluìs Llach. Liberatrice come l’aria è calda, i frutti dolci, un litigio, un flirt, un racconto funzionale a un cinema lieve e gentile, sostenuto da domande esistenziali che hanno una densità schiacciante: l’amore è una stupidaggine, l’amore è una menzogna, l’amore è un desiderio. Chi pensa che l’amore sia divertente alzi la mano. No, non può essere perché l’amore “è forte come la morte”: è passione, lacrime e sangue. E Sehiri non manca di ricordarlo, sempre: terra di conflitto e meta di armonia, sogno di un paradiso da abitare e strada per raffinare la propria umanità. Durante questa giornata così piena di vita il frutteto diventa teatro di emozioni, luogo dove transitano i sogni e le speranze di una generazione moderna più libera, accanto ad una generazione più ancorata alle tradizioni. Due mondi allo specchio, come in un mito, in un racconto antico, eziologico e fondativo che ha come scenario un giardino mai troppo arioso o aperto. Scelte che riescono a trasmettere una certa sensualità attraverso gesti minimali, dialoghi asciutti e spontanei, primi piani carichi di tensione complessità, più comunicativi di un bacio. Il frutteto diventa luogo d’amore per superare la morte, amore che unisce le donne, come sottolinea il potente finale liberatorio quando al termine della giornata di lavoro, si fanno belle perché non vogliono sembrare sempre braccianti e quando Sehiri, fuori dalle convenzioni che le imprigionano, cerca di restituire loro tutta la dignità ed eleganza che meritano.

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Sull'autore

Matteo Mazza