Rassegne parallele, collaterali, star (poche), glamour, polemiche, pronostici e soprattutto i ventitré film del concorso. È in particolare su questo nutrito gruppo di opere che è calato il sipario, con una profonda nostalgia, della 80ma Mostra del Cinema di Venezia, quasi addetti e pubblico si stessero abituando a un’edizione straordinariamente appagante per qualità e contenuti in una singolare simbiosi. Ne deriva di conseguenza che nel podio non avrebbero potuto trovare posto tutti i film in concorso sfidanti, incantevoli, necessari (aggettivo abusato ma sensato) visti al Lido. Come pure il contrario: ovvero che accadesse che nell’altro podio, quello dell’insignificanza, non ci fosse finalmente ressa per trovare posto a troppi film brutti.
Il presidente Alberto Barbera, in carica fino alla fine del 2024, senza dubbio porta a casa una manifestazione di spessore e respiro globale, malgrado l’assenza tanto citata delle star impegnate nello sciopero più compatto di Hollywood degli ultimi decenni. E se tanto si è parlato di un “sottotono” ancor prima che la Mostra srotolasse il suo tappeto rosso, altrettanto intensamente andrebbe sottolineato quanto fosse ricca la sezione principale del concorso di storie, di emozioni, di interpretazioni memorabili, di genialità incontenibile ma anche di struggente contenimento. Detto in altre parole, quanto cinema d’essai pronto ad aprirsi ad un pubblico tutt’altro che di nicchia. Al netto delle accuse di “ecumenismo” fatte ad una giuria “altissima” (bastino alcuni nomi: Damien Chazelle, Jane Campion, Mia Hansen-Løve, Martin McDonagh…), andrebbe segnalato piuttosto il coraggio di quest’ultima di consegnare un podio agganciato al paesaggio contemporaneo, alle sue contingenze, alle sue ferite senza rinunciare ad una poetica d’autore innegabilmente elevata. Tradotto, abbiamo visto film che lanciano davvero il cuore oltre l’ostacolo, che guardano al mondo, che escono fuori di sé tra etica ed estetica con uno stile ineccepibile. Se ci fossero state anche le star sarebbe stato praticamente un festival perfetto? Eppure, stringendo alla fin fine sul cinema (il vero cuore della faccenda), a noi è sembrato comunque un festival in stato di grazia che darà grande soddisfazioni anche al cinema-sala.
I meravigliosi premiati
«Voi avreste preferito privare il mondo di Bella?» è la più bella domanda del festival e la pone Godwin Baxter (Willem Dafoe), il dio demiurgo di Povere creature, Leone d’Oro di Venezia 80 implicitamente a tutti coloro che finiscono negli ingranaggi della protagonista. I quattro anni che sono serviti al regista Yorgos Lanthimos per consegnarci le tappe epiche evolutive di Bella Baxter (Emma Stone è storia del cinema dopo questa interpretazione) sono, infatti, più che credibili per l’impatto di genialità debordante, intelligenza oltremodo raffinata, libertà orfana della giovinezza alla ricerca dell’etica adulta. Povere creature! trova una centratura perfetta sull’orizzonte femminile da diventare un capolavoro per l’umanità oltre il genere. La beatitudine che Bella progressivamente raggiunge come donna di creazione – tratta dal racconto omonimo del 1992 di Alasdair Gray – è fatta di fughe e ritorni, di scienza ed emozioni, di piacere e di riflessione, di filosofia e di denaro, di scelte e di contraddizioni, di genitorialità e di libero arbitrio. «Io sono una festa di cambiamenti» è la risposta di Bella che incorona la fatica necessaria del crescere ma anche la capacità che ci consente di sopportare il dolore del mondo. Bella Baxter è capolavoro, amore autentico e quantomai futuro.
Andando avanti, premiare sia Zielona granica (Il confine verde) di Agnieszka Holland con il Premio speciale della giuria sia Matteo Garrone con il Leone d’Argento – Premio per la Migliore Regia per Io capitano è la scelta per noi davvero audace (per qualcuno buonista) di una giuria che non ha avuto paura di imporre alla vista dei riflettori internazionali le tragedie odierne dei viaggi della speranza. La rotta balcanica via terra verso l’Europa, zoomata sull’inferno del confine tra Bielorussia e Polonia, e quella africana via terra e mare verso l’Italia, passando per la mostruosità della Libia, trovano spazio rispettivamente in due opere riuscite con stilemi completamente diversi.
Con questi due film assieme a Povere creature! e a Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi, il regista giapponese del bellissimo Drive my car, Venezia 80 si impone per la sua capacità di mettere in ordine le questioni epocali alle quali nessuno può sottrarsi, nemmeno l’arte e lo spettacolo. Hamaguchi attorno alla vicenda della costruzione di un gampling, un campeggio di lusso fuori Tokyo, costruisce un dramma sornione sulle regole di ingaggio della natura, della comunità, della persona e della famiglia. Con la sua capacità di narrazione universale e fuori stagione Il male non esiste giunge ad afferrare il significato più elevato e intimo del genius loci di un territorio, di un’esperienza geografica, di una verità domestica attorno ad un bosco.
La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Cailee Spaeny nel film Priscilla di Sofia Coppola e quella per la migliore interpretazione maschile a Peter Sarsgaard nel film Memory di Michel Franco non tradiscono lo spirito di una giuria vocata al premiare film che guardano avanti anche dove la scure sembra essersi definitivamente abbattuta sul presente di personaggi emotivamente molto intensi. Uscire dalla prigione di un amore giovanile senza speranza, anche e soprattutto se marchiato Elvis, o il lusso più che sofferto di concedersi un innamoramento nella fase di transizione verso la demenza sono storie dignitose quanto quelle citate sopra? Per Chazelle e colleghi pare proprio di sì. La qualità umana, senza mai rinunciare alla sua traduzione estetica, accomuna davvero tutti i film premiati arrivando come un messaggio forte e chiaro da una giuria tutt’altro che omogenea nella sua composizione.
I meravigliosi non premiati
D’altronde in un’edizione fortunata per qualità e impegno non potevano starci tutti sul podio. Eppure non avrebbe guastato un premio allo struggente Hors-Saison di Stéphane Brizé con Guillaume Canet e Alba Rohrwacher, all’onirico e futuristico La Bête di Bertrand Bonello con Léa Seydoux o a Woman of… di Małgorzata Szumowska e Michał Englert con Małgorzata Hajewska-Krzysztofik. Saranno prossimamente le emozioni (e anche le lacrime, perché bandirle?) del pubblico in sala a rendere omaggio all’amore che resiste alle stagioni, che oltrepassa le epoche e le intelligenze artificiali, che tiene insieme il genere e le sue transizioni. Last but not least e obiettivamente magari sforbiciato qua e là, anche Origin di Ava DuVernay merita la nostra attenzione per una lettura della realtà meno partitica e meno ingenua. Sicuramente un po’ saggistico, e quindi a tratti rischiosamente didascalico per la settima arte, ma estremamente raffinato sul concetto di “casta” e delle sue derive che in maniera troppo semplificatoria incaselliamo nella fretta digitale della contemporaneità con il sostantivo “razzismo”. Abbiamo visto con soddisfazione anche Comandante di Edoardo De Angelis, Dogman di Luc Besson, Bastarden di Nikolaj Arcel con Mads Mikkelsen, Maestro di Bradley Cooper. Vorresti privare la sala di film così? Certo, abbiamo avuto il capolavoro supremo e che immensa gratificazione per chi fa questo lavoro, ma ci consola e ci sostiene che la lista di film più che dignitosi sia davvero lunga perché il cinema non si esaurisca nei festival e ritorni ad essere trama di comunità.
Quello disturbante
Compiaciuto. Gonfio. Sentenzioso: Enea di Pietro Castellitto, il primo dei quattro figli di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto, ci è parso così, ripiegato su se stesso, sulla bellezza crudelmente annoiata dei suoi personaggi di Roma Nord. Un film dove gli uomini, inondati di soldi, fanno la morale senza mai veramente sentirsi percossi interiormente dai propri orizzonti ideali e le donne, cementificate su un piedistallo così tanto da non farle mai scendere nella realtà, appaiono statue-madonne dalle frasi d’effetto che però non sono mai degne di giocarsela. L’ordine “clanico” messo in testa alla conversazione con cui si apre Enea – passato per difesa della famiglia quando invece ci sembra piuttosto un approccio mafioso alle relazioni – viene svolto nel film con disinvolte volgarità gratuite, bestemmie comprese, che poco aggiungono all’indagine del paesaggio umano prescelto e il tutto condito con un maldestro tentativo di ascendenze sorrentiniane. Alla fine del film viene, infatti, una voglia sfrenata di rituffarsi ne La grande bellezza di Sorrentino come atto di esorcismo purificatorio dal clan Castellitto.
Quello che “anche no” in concorso
Sicuramente Holly: il quarto lungometraggio della regista belga Fien Tronch aveva tutte le premesse per raccontare una tormentata trascendenza contemporanea. E invece la vicenda di un’adolescente dotata di una luce anomala diventa, invece, un’occasione sbiadita che gira su se stessa tra passaggi didascalici e una sceneggiatura irrisolta firmata sempre da Tronch. E lo diciamo con dispiacere perché poteva essere un film intergenerazionale oltre la sensibilità contemporanea.
Quello che non aggiunge nulla
A pari merito Adagio di Stefano Sollima e The killer di David Fincher pienamente a loro agio nel genere ma senza consegnare nessuna variazione sul tema degna di comparire in concorso al Lido. Avremmo scambiato volentieri un Sollima/Fincher con un Linklater piazzato purtroppo fuori concorso con il suo travolgente Hitman, commedia intelligente in bilico tra amore e thriller che avrebbe meritato senza esitazioni il premio per la migliore sceneggiatura, andato invece a Guillermo Calderón e Pablo Larraín per il film El conde, sempre di Larraín.