Il percorso della sedicenne Old Dolio per affrancarsi da una coppia disfunzionale di genitori “parassiti” che la sfruttano nelle truffe con cui si mantengono, conquista i giovani giurati dai 15 ai 18 anni di “Alice nella città” alla Festa del Cinema di Roma, che hanno attribuito a Kajillionaire di Miranda July il premio come “Miglior film Alice 2020”. La narrazione è classica: l’eroina (dalla bionda chioma principesca ma dai modi rudi e l’abbigliamento maschile) è psicologicamente soggiogata da una padre padrone e una madre anaffettiva, a cui resta legata per lesinare un minimo di riconoscimento e calore umano. L’aiutante magico è un’esuberante coetanea portoricana che dapprima si unisce alla gang familiare per soldi, ma compresa la dinamica perversa e sterile di affetto in cui Old Dolio è invischiata, farà il possibile per liberarla. La pellicola americana sarebbe dovuta uscire nelle sale italiane il 19 novembre portando con sé la capacità terapeutica di farci empatizzare con la protagonista in quel bisogno d’amore materno, di cui ciascuno è stato, o è ancora, portatore, e che ha inevitabilmente influenzato il nostro sviluppo emotivo.
Sull’asse speculare del rapporto padre-figlio viaggia invece la storia di Ibrahim, film francese di Samir Guesmi, vincitore del premio “Camera d’Oro Alice/My Movies” assegnato dai registi e sceneggiatori Eva Cools, Agostino Ferrente, Claudio Noce e Roberta Torre, e dall’attrice Caterina Guzzanti. L’incedere della macchina da presa da “pedinamento” neorealista, traccia un potente ritratto delle seconde generazioni d’immigrati nelle periferie parigine per mezzo di Ibrahim, simbolo di rabbie represse (lui vorrebbe fare il calciatore ma non ha il talento necessario), mancanza d’attenzioni (la madre è morta per overdose), anelito ad un riconoscimento sociale con ogni mezzo (piccoli o grandi furti, prostituzione, contrabbando). L’affacciarsi di un nuovo amore e la riconciliazione con il padre lasciano però un finale aperto alla speranza.
Di immigrazione e resistenza al degrado si parla anche nell’opera vincitrice del premio “Raffaella Fioretta”, attribuito dai registi Riccardo Milani e Dario Albertini e dall’attrice Valentina Lodovini a Il Mio Corpo di Michele Pennetta. Il film documenta due esempi veri di sopravvivenza in una Sicilia che sembra fuori dal tempo e dallo spazio: Oscar raccoglie oggetti e metalli in discariche abusive che poi il padre rivende, mentre Stanley è un nigeriano con permesso di protezione umanitaria che cerca di emanciparsi lavorando nei pascoli e nelle piantagioni. Sono l’altro volto del disagio giovanile, lontano dalla movida e dalle tentazioni, ma espressione della stessa solitudine esistenziale.
Una vita ai margini è anche quella delle 500 famiglie dell’Idroscalo di Ostia, riprese nel film Punta Sacra di Francesca Mazzoleni, Premio Speciale della Giuria “per aver saputo raccontare in modo mai banale una comunità dalle mille sfaccettature e riuscendo a mostrare bellezza e malinconia, luci e ombre di chi la vive quotidianamente”, come recita la motivazione.