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Ridi che ti passa

È ben noto che la commedia sia il genere cinematografico più frequentato e più ambito in Italia. È così fin dagli anni Trenta – da quando cioè il nostro cinema ha iniziato a strutturarsi in industria – tanto da essere diventato ben presto un formidabile strumento per comprendere il paese. Sia da parte di chi tenta di raccontarlo attraverso le vibrazioni che lo attraversano e le dinamiche intersoggettive che lo animano, sia da parte di chi tenta di interpretarlo e radiografarne le oscillazioni fruendo tali racconti. Osservare i “movimenti” all’interno di questo macrogenere aiuta dunque a capire quale sia il reale stato di salute della nostra cinematografia ma anche, probabilmente, quello dell’intera società.

2014/15: una stagione convenzionale

Provando a tracciare un percorso analitico non complessivo (dal momento che, nel momento in cui scrivo, non si è ancora conclusa), la stagione 2014-2015 mette in luce qualche titolo di rilievo, ma non è da annoverare tra quelle memorabili.
Soprattutto perché manifesta un’involuzione rispetto al rinnovamento che aveva caratterizzato quella precedente, dove in particolare le opere di alcuni esordienti avevano saputo coniugare freschezza e qualità sperimentando territori poco o per nulla frequentati dalla commedia italiana. Come ad esempio la curiosa contaminazione tra essa e il mafia-movie (La mafia uccide solo d’estate di Pif), o la commedia “sociale” di origine britannica (Smetto quando voglio di Sidney Sibilia) oppure l’originale declinazione in chiave etilica della commedia interculturale “di confine” (Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto). Al contrario della precedente, gli esordi di questa stagione sono sembrati più convenzionali e sicuramente meno incisivi. L’unico titolo che sembra ritagliarsi uno spazio autonomo e definire uno sguardo originale è Short skin – i dolori del giovane Edo di Duccio Chiarini, progetto prodotto dalla Biennale college che si avvale di un cast di attori quasi tutti esordienti. La leggerezza con cui il giovane regista fiorentino (già autore nel 2011 del pluripremiato documentario Hit the road, nonna) tratta il tema della sessualità giovanile, lo segnala infatti per la non comune sensibilità oltre che per la verve brillante nel solco della grande tradizione toscana.

La commedia “condominiale”

Tra gli elementi caratterizzanti dell’annata della commedia c’è l’exploit di Alessandro Genovesi, capace della ormai rara impresa di realizzare due titoli per la sala nella stessa stagione cinematografica. Due commedie “condominiali” con caratteristiche simili, ma con esiti ben diversi. Se infatti Soap opera è un film ambizioso che però risente di uno script farraginoso, di un ritmo compassato e di un cast non ben assortito, con Ma che bella sorpresa siamo invece di fronte a una delle commedie rivelazione della stagione. Mettendo insieme volti e temi (l’incontro/scontro
culturale Nord/Sud) di uno dei successi cinematografici più importanti degli ultimi anni (Benvenuti al Sud), giocando sullo “sfalsamento del punto di vista” tipico di altri generi (sdoganato da Il sesto senso di M. Night Shyamalan e in seguito utilizzato soprattutto dal cinema “fantastico”) e assortendo un ottimo cast (nel quale spiccano i ruoli secondari, in particolari quelli di Renato Pozzetto e Ornella Vanoni), Genovesi costruisce un prodotto di ottima fattura. Una commedia brillante che non solo si eleva ben sopra la media, ma che valorizza anche l’autorialità del regista milanese (ad esempio nel modo originale di trattare lo spazio del racconto).

Insieme a quello di Genovesi, l’altra personalità emergente della stagione è quella del romano Edoardo Leo, che non solo si conferma tra i volti più richiesti e con maggiore appeal del momento (la sua ascesa ha avuto un’improvvisa impennata proprio con il successo di Smetto quando voglio), ma con Noi e la giulia mette in luce anche le sue qualità di regista. Pur non esente da difetti infatti (ad esempio l’ultimo terzo del film non è all’altezza degli altri due), il suo terzo lungometraggio ne mette in rilievo la capacità di direzione degli attori, di gestione della narrazione (Leo peraltro firma anche la sceneggiatura, insieme a Marco Bonini, tratta dal bel libro di Fabio Bartolomei Giulia 1300 e altri miracoli) e di orchestrazione delle gag. A ciò bisogna aggiungere la giusta amalgama del cast, sia per i ruoli principali (menzione speciale va ai personaggi del camorrista interpretato da Carlo Buccirosso e della “frastornata” ragazza del gruppo cui dà vita Anna Foglietta), sia per quelli secondari.

Un rinnovato sense of humour

Quello che invece sembra essere il dato più interessante della stagione è la penetrazione all’interno degli schemi della commedia italiana di un tipo di umorismo con una matrice culturale di origine diversa. Un umorismo nero e corrosivo che il nostro cinema ha poco frequentato (ma quando lo ha fatto ha prodotto talvolta titoli memorabili, come ad esempio I mostri di Dino Risi o qualche film di Marco Ferreri) ma al quale nelle ultime stagioni sembra ricorrere sempre più frequentemente. In tal senso è significativa l’operazione di Ogni maledetto Natale, seconda pellicola diretta a sei mani da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vedruscolo dopo la fortunata esperienza di Boris (le tre stagioni della serie tv e poi il film), che affronta la grande prova della “commedia natalizia” provando a ribaltare il modello del classico cinepanettone. A partire dallo schema narrativo (che si suddivide in due parti speculari), proseguendo con il lavoro con gli attori (a quasi tutti gli interpreti del nutrito e ben assortito cast è affidato un doppio ruolo in cui ognuno può dar sfoggio delle proprie qualità interpretative) che si sostituisce alla prevalenza dello slapstick, ma soprattutto rifuggendo dall’elemento “vacanziero” e puntando anzi a far deflagrare quello che da sempre è l’elemento di ricomposizione (sociale e narrativa): il nucleo familiare.

Di black humour (che si mescola con un barocchismo di matrice tipicamente siciliana) si può parlare anche a proposito dei film della ex-coppia Ciprì & Maresco.
Se però il film del primo (La buca) è sembrato un altro passaggio a vuoto dopo gli incerti esiti di È stato il figlio, quello del secondo è invece un gradito ritorno, in quanto Belluscone, una storia siciliana spicca tra i titoli della stagione. Maresco infatti sperimenta una narrazione personale, mescolando sapidamente i toni della ricerca documentaristica con quelli della finzione, i registri della commedia con quelli del grottesco e sfornando una galleria di situazioni e di personaggi memorabili sui quali svetta Ciccio Mira, piccolo impresario di cantanti neomelodici palermitani capace di dichiarare candidamente al proprio intervistatore che «la Mafia è stata una bella storia». Un personaggio reale e contemporaneamente fantasmatico perché, con il procedere della narrazione, ci si chiede a quale realtà appartenga. E di conseguenza, pirandellianamente, a quale realtà apparteniamo noi che, ridendo delle sue continue contraddizioni, non riusciamo a comprenderne le ragioni, il linguaggio, addirittura lo statuto stesso (è più Persona o Personaggio?). Proprio per questo Belluscone è un grande film su quello che oggi è diventato il nostro Paese, dove il grottesco sembra essere diventato il registro più adatto a restituirne tutte le ambiguità, i paradossi, le incertezze.

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).