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2073, la recensione del mockumentary di Asif Kapadia
Aspettando l'apocalisse

2073 recensione

Presentato come un documentario, e quindi non fiction, nella sezione Fuori Concorso, 2073 del regista inglese di origine indiana Asif Kapadia, è in realtà un ibrido, con una cornice finzionale, da film di fantascienza e contenuti propri del documentario politico.

In un futuro distopico, nell’anno che dà il titolo alla pellicola, una donna vive nei sotterranei di un palazzo fatiscente assieme ad altre persone, cercando di procurarsi da vivere rovistando clandestinamente nei rifiuti nelle poche volte che esce rischiando di essere identificata e arrestata. La situazione, raccontata con poche scene di forte impatto, è angosciante, ma non più di altri mille lungometraggi simili. A fare la differenza sono i flashback che raccontano il passato rispetto alla narrazione, individuando il momento in cui il mondo ha preso la direzione della distruzione e della catastrofe: e quel passato è il nostro presente.

È in questi ampi flashback che vediamo la parte documentaristica, il nostro mondo è raccontato per quello che è, con le destre sovraniste che crescono in molti paesi, dagli Stati Uniti alle Filippine, col potere economico che accresce sempre più il controllo sulle persone appoggiandosi sulle tecnologie più avanzate, con la crisi ambientale che peggiora sempre più. È in quest’epoca, dice il film, che la nostra società è posta di fronte a un bivio che non dà scampo: quello tra democrazia e fascismi. Scegliere la seconda via, o anche non fare abbastanza per evitarla, porterà inevitabilmente alla catastrofe di quel 2073.

La parte documentaristica presenta interviste a giornalisti e osservatori, e mostra eventi noti che riguardano tutto il mondo, dibattiti politici, disastri ambientali, preoccupanti novità tecnologiche. I responsabili hanno nomi e cognomi, la denuncia è molto forte. L’opera restituisce una visione del mondo ovviamente di parte e in qualche aspetto discutibile, tuttavia rispetto a un qualsiasi documentario, la forma scelta ha una indubbia efficacia. Fin dall’inizio in cui compare la donna nel futuro, infatti, lo spettatore empatizza con lei, ne comprende le debolezze e le paure, ne ammira il coraggio, la segue nelle sue scorribande all’aperto, e tutto questo prima di sapere quali sono le cause che hanno portato alla devastazione del mondo.

Per entrare in questo mondo finzionale lo spettatore sospende la sua incredulità e abbandona tutta la dimensione critica che si affaccia di fronte a un discorso politico e sociale. Da questo punto di vista, vedere i nostri potenti, i politici, i magnati, i giornalisti, crea un cortocircuito nello spettatore, che dovrebbe riacquistare il suo spirito critico per non recepire passivamente quanto gli viene detto. Ma non può più, andare continuamente dentro e fuori la realtà e la fiction produce un effetto straniante e angosciante per cui tutto diviene evidente e indiscutibile e quindi, se si accetta questo patto narrativo, la catastrofe risulta tangibile, prossima, quasi inevitabile.

Attraverso un espediente narrativo, insomma, la denuncia diviene più potente e persuasiva di qualsiasi documentario tradizionale, e poco importa se questo o quell’aspetto sono in fondo poco convincenti (la considerazione solo di alcuni aspetti di un mondo più vasto e articolato, il nesso tra potere economico e crisi ambientale, eccetera), ciò che conta è il disagio che si prova di fronte al nostro presente. Sperando ovviamente che questo disagio dello spettatore si trasformi in azione e che siamo davvero disposti a tutelare la democrazia, la libertà e la dignità di ogni uomo e ogni donna contro l’oppressione di alcune forme di potere.

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Sull'autore

Alessandro Cinquegrani