Una ricognizione sul corpo dell’Italia, che posa lo sguardo sui suoi lineamenti fondamentali, da quello geo-fisico e ambientale a quello economico e produttivo, da quello socio-demografico e abitativo a quello antropologico e culturale. Il racconto di un territorio nella sua attuale fisionomia, un Atlante domestico di meraviglie a volte incomprese e di luoghi conosciuti, amati e spesso smarriti. E di gente cólta nel suo vivere in un habitat ad alta stratificazione, tra la grandezza ancora fruibile del passato e l’apparente stasi del presente.
Da sempre caratterizzato dalla sperimentazione di forme e modelli e da uno stile eccentrico quanto personale, quello del romano Egidio Eronico è un percorso espressivo decisamente atipico all’interno della produzione italiana degli ultimi cinquant’anni. Sin dai primi lavori realizzati in Super8 negli anni ’70 infatti, esso si snoda tra la produzione documentaria e quella di finzione con una frequenza regolare nei due decenni terminali del XX secolo (con 8 titoli tra il 1986 e il 1999), per diradarsi successivamente.
Amate sponde è infatti appena il terzo titolo della sua filmografia nel XXI secolo, che arriva a distanza di ben sette anni dal precedente Nessuno mi troverà. Come il lavoro del 2015 dedicato alla scomparsa di Ettore Maiorana, anche questa sua nuova opera è un documentario, che tuttavia è caratterizzato da un modo di produzione e da un’estetica che lo rendono un oggetto decisamente “fuori norma”. Da un lato infatti è un lavoro che mette insieme i contributi di ben 7 film Commission regionali (Piemonte, Trentino, Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia), dall’altro sceglie una narrazione essenziale, completamente depurata da ogni commento o dialogo. Ovvero affidandosi solo alle immagini e alla musica, e puntando tutto sulle connessioni che la loro messa in rapporto sono in grado di attivare. Un’opera che dunque si distingue dalla corrente produzione per l’imponente lavoro di montaggio capace di costruire una seducente sinfonia per immagini e suoni, ma che è in grado di andare oltre l’ipnotico assemblaggio di materiali per farsi discorso su un paese e sulle sue profonde contraddizioni.
Amate sponde è insomma un vero e proprio viaggio nel ventre dell’Italia nel quale le giustapposizioni geografiche e territoriali riflettono quelle politiche, sociali, programmatiche. Mentre quelle formali — che talvolta sembrano deflagrare grazie al certosino quanto raffinato lavoro di associazione tra immagine e immagine, così come in quello tra immagine e suono — in realtà riflettono una visione del cinema (e quindi “del mondo” per dirla con Truffaut) nel quale il gesto artistico diventa salvifico, poiché in esso si riflette una visione morale. Un’opera nella quale le scelte formali sono il frutto di un pensiero che precede la messa in forma, e che così divengono la risposta stessa ai problemi enunciati dal discorso prodotto. Quella di Eronico dunque è un’operazione tanto stratificata quanto emozionalmente profonda, che forse certamente non convincerà tutti proprio per la sua estraneità alla narrazione corrente, ma che sarebbe un peccato non vedere in una sala. Perché solo in una sala cinematografica la visione può diventare esperienza.